giovedì 16 dicembre 2010

"L'occidentale" ed amato kosovo...

MILANO - Il capo del governo del Kosovo, Hashim Thaci, sarebbe il boss di un racket che ha iniziato le sue attività criminali nel corso della guerra del Kosovo proseguendole nel decennio successivo. Secondo il rapporto stilato dalla commissione d’inchiesta del Consiglio d’Europa sul crimine organizzato il premier kosovaro sarebbe a capo di un gruppo mafioso albanese responsabile del traffico di armi, di droga e di organi umani nell’Europa dell’Est. Il rapporto, che conclude due anni di indagini e cita fra le sue fonti l’Fbi e altri servizi di intelligence, scrive che Thaci ha esercitato un «controllo violento» nell’ultimo decennio sul commercio di eroina. Uomini della sua cerchia sono accusati di aver rapito uomini e donne serbe al confine con l’Albania per ucciderli e privarli dei reni, venduti poi al mercato nero. Nel suo rapporto, lo svizzero Dick Marty - deputato elvetico all'Assemblea Parlamentare del Consiglio ed ex procuratore del Canton Ticino ora relatore per i diritti umani e le questioni giuridiche del Consiglio d'Europa - afferma che gli indipendentisti kosovari dell'Uck hanno gestito alla fine degli anni Novanta un traffico di organi ai danni di prigionieri serbi. Secondo Marty, tale traffico era controllato da una formazione dell'Uck denomonata «Gruppo di Drenica», capeggiata dall'attuale primo ministro kosovaro, Hashim Thaci. E vi sarebbero «numerosi indizi» che «gli organi venissero estratti da prigionieri di una clinica in territorio albanese, nei pressi di Fushe-Kruje (20 km a nord di Tirana)».


RENI, EROINA E ARMI
- Nel testo, disponibile su internet, si ricorda che del traffico di organi espiantati a prigionieri di guerra serbi fa menzione Carla Del Ponte, l'ex-procuratore del Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia, nel suo libro pubblicato in prima battuta in Italia La caccia - Io e i criminali di guerra. Tragico dubbio che diventa protagonista di  The Empty House, documentario prodotto da PeaceReporter in cui, a partire dalla Casa Gialla (dove secondo le accuse si espiantavano gli organi), si denuncia il dramma delle persone scomparse durante la guerra in Kosovo. Una storia, raccontata in multimediale, che si concentra appunto sul dubbio che alcune persone scomparse siano state vittime di un traffico di organi. Un secondo e ultimo riferimento all'Italia fatto dal rapporto riguarda «analisti» del Sismi, il servizio segreto militare, e dell'intelligence tedesca, britannica, greca e della Nato che definirebbero «abitualmente» l'attuale premier kosovaro Hashim Thaci come «il più pericoloso tra i padrini della mala dell'Uck». I responsabili di questi traffici sarebbero i leader di etnia albanese dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck). Secondo le testimonianze raccolte dal rapporto del Consiglio d'Europa, i prigionieri di guerra serbi e altri civili venivano uccisi con un colpo di arma da fuoco alla testa. Gli affari si facevano soprattutto con reni, venduti a cliniche private straniere. Un ruolo fondamentale avrebbe avuto in tutta la vicenda Shaip Muja, anch'egli ex comandante dell'Uck e ancora oggi stretto collaboratore politico di Thaci, responsabile delle questioni sanitarie.
LO SDEGNO DI PRISTINA
- A Pristina, dove Thaci con il suo Partito democratico del Kosovo ha vinto le elezioni legislative anticipate di domenica scorsa, il governo ha smentito seccamente il contenuto del rapporto di Dick Marty. Respingendo le accuse, una nota governativa lo ha definito «senza fondamento». Si tratterebbe di «invenzioni» finalizzate a coprire «di obbrobrio l'Uck e i suoi dirigenti». In una nota pubblicata nella notte si legge: «È evidente che qualcuno vuol fare del male al primo ministro Thaci dopo che i cittadini del Kosovo gli hanno dato chiaramente la loro fiducia per continuare il programma di sviluppo del Paese». Il governo ha quindi annunciato l'intenzione di adottare «tutte le misure possibili e necessarie per rispondere alle invenzioni e alle calunnie di Dick Marty, ivi comprese misure giudiziarie e politiche». In un comunicato il premier di Pristina preannuncia «tutti i passi necessari, compreso il ricorso a mezzi legali e politici» nei confronti dell'autore della relazione, Dick Marty.
NEMICI DELL'INDIPENDENZA - «Faremo squalificare le calunnie del signor Marty», ammonisce il comunicato ufficiale, in cui si addebitano le accuse contenute nel rapporto ai «nemici dell'indipendenza» dell'ex regione serba a maggioranza albanese. «I cittadini kosovari e l'opinione pubblica internazionale nel suo complesso non credono alle diffamazioni messe in circolazione da chi si oppone all'indipendenza e alla sovranità del nostro Paese», si afferma, «e non permetteranno in alcun modo che certi demagoghi macchino la limpida lotta dell'Esercito di Liberazione del Kosovo e il sacrificio di tutti i cittadini della nostra patria». L'Esercito di Liberazione o Kla, di cui Thaci era comandante, sarebbe servito da copertura per gli affari illeciti da questi portati avanti prima, durante e dopo la guerra. Il comunicato governativo si conclude con un appello a tutti i 47 Stati membri del Consiglio d'Europa, ai quali mercoledì a Parigi verrà presentato il Rapporto, affinchè «si oppongano con forza a questo documento diffamatorio».
IL RICONOSCIMENTO - Il Pdk (Partito Democratico del Kosovo) guidato da Thaci, pur in calo di consensi, ha ottenuto il maggior numero di voti nelle elezioni anticipate di domenica scorsa nell'ex regione serba a maggioranza albanese. Per quanto difficile appaia la formazione di un nuovo esecutivo di coalizione a Pristina, l'incarico dovrebbe essere riconferito a Thaci e, una volta formata la compagine, si ripresenterà la questione dei negoziati con la Serbia, che continua a non riconoscere l'indipendenza kosovara, proclamata unilateralmente nel febbraio 2008.
LA SODDISFAZIONE DI BELGRADO - Dal canto suo, Belgrado ha espresso grande soddisfazione per il Rapporto del Consiglio d'Europa sul presunto traffico di organi umani ai danni di cittadini serbi. Tale rapporto, ha detto il viceprocuratore serbo per i crimini di guerra, Bruno Vekaric, «è una grande vittoria della Serbia nella lotta per la verità e la giustizia». «Grazie all'aiuto del presidente, Boris Tadic, e agli sforzi continui degli organi giudiziari serbi, abbiamo conseguito la vittoria e abbiamo restituito la speranza alle famiglie delle persone rapite o dei dispersi», ha aggiunto Vekaric auspicando che la pubblicazione del rapporto del Consiglio d'Europa, «estremamente positivo», consentirà l'apertura di numerose inchieste sui traffici di organi in Kosovo e Albania, dove le autorità giudiziarie hanno ignorato per anni gli appelli a far luce su tale problema.
I DUBBI DI MOSCA - In visita ufficiale a Mosca, il ministro degli esteri serbo Vuk Jeremic ha messo in dubbio che vi sia un futuro politico per Hashim Thaci. Secondo Jeremic il documento rivelerebbe «la terribile realtà» kosovara: «È un segnale che mostra come sia ormai tempo per il mondo civilizzato di smetterla di voltarle le spalle», ha detto. «Questo rapporto svela che cosa è il Kosovo, e chi è che lo guida». Dello stesso avviso di Jeremic è l'omologo russo Serghei Lavrov, il cui Paese parimenti non riconosce il Kosovo come Stato sovrano. Lavrov ha affermato di essere «molto allarmato» per quanto emerge dal rapporto Marty che, ha sottolineato, «non può restare secretato» poiché «tutti dobbiamo assicurare che gli sia data la più ampia diffusione possibile». Il capo della diplomazia russa ha quindi ribadito la posizione di Mosca, che si rifà ancora alla risoluzione adottata nel 1999 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in cui si faceva del Kosovo una sorta di area neutrale sotto l'amministrazione del Palazzo di Vetro. «Noi», ha affermato ancora Lavrov, «sosteniamo la necessità di un dialogo diretto tra le autorità di Belgrado e quelle di Pristina, soltanto nel cui ambito è possibile trovare una soluzione a lungo termine per il Kosovo, fondata su un reale compromesso accettabile reciprocamente da ambedue le parti. In tale processo», ha ammonito, «qualsiasi intervento straniero va accuratamente valutato e soppesato».
Da corriere.it

mercoledì 15 dicembre 2010

Rivelati i motivi del mancato Nobel a Pound

Roma, 22 giu. (Adnkronos) - Niente Premio Nobel per la Letteratura a Ezra Pound (1885-1972) perché fu compromesso con il regime fascista. Il poeta statunitense - che visse per molti anni in Italia, ammirò Benito Mussolini e morì a Venezia - fu candidato nel 1959 al prestigioso riconoscimento dallo scrittore Johannes Edfelt nella sua veste di presidente del Pen Club di Svezia. Ma la Commissione Nobel non gradì quel nome 'pesante', tanto che il suo presidente Anders Osterling, si sbarazzò di Pound osservando come il candidato, pur non trovandosi più nelle condizioni di recluso in un manicomio americano dopo la condanna per collaborazionismo fascista, si fosse tuttavia reso responsabile, nella sua opera, della propagazione ''di idee che sono decisamente in contrasto con lo spirito del Premio Nobel''.

A rivelare la bocciatura di Pound è un articolo del professore Enrico Tiozzo, docente di letteratura italiana all'Università di Goteborg, pubblicato sul nuovo fascicolo della rivista 'Belfagor', il quale ha potuto visionare il resoconto finale inedito della riunione della Commissione Nobel del 14 settembre 1959 grazie ad un permesso del segretario permanente dell'Accademia di Svezia.

Per le vicende relative al Nobel del 1959, a sorpresa vinto dal poeta Salvatore Quasimodo, la documentazione dell'archivio privato dell'Accademia Svedese è stata resa accessibile solo dal 1 gennaio scorso. In quella stessa riunione in cui fu escluso Pound, scrive Tiozzo, furono giubilati anche lo scrittore britannico Edward Morgan Forster in due righe per la 'grave età' (l'autore di 'Passaggio in India' e 'Camera con vista' era allora ottantenne ma sarebbe vissuto fino al 1970) e lo scrittore francese André Malraux, candidato, sostenne Osterling, ''tra i più interessanti, ma purtroppo condizionato dall'essersi lasciato alle spalle la letteratura d'invenzione''.

venerdì 3 dicembre 2010

La gente come noi non molla mai


"Schiavo è colui che aspetta qualcuno che venga a liberarlo" Non mollare Liu!

PECHINO - A una settimana dalla cerimonia di consegna del premio Nobel per la pace, Liu Xiaobo ha detto no alla libertà. Il dissidente cinese, condannato a undici anni di prigione per "incitamento alla sovversione", ha rifiutato la scarcerazione e l'espulsione immediata dalla Cina in cambio di una "confessione".

La proposta del governo di Pechino è stata rivelata ieri dall'avvocato del leader di Charta 08. "Liu Xiaobo - ha detto Shang Baojun - accetterà solo il rilascio senza condizioni". Le autorità cinesi, decise a minimizzare l'indignazione internazionale, avevano tentato in extremis di avviare una trattativa riservata con il protagonista delle proteste del 1989 in piazza Tiananmen. L'offerta è stata quella che negli ultimi anni ha consentito a centinaia di attivisti per la democrazia di andare in esilio: un passaporto di sola uscita con il visto per gli Usa, o per uno dei Paesi Ue. "Liu Xiaobo ha rifiutato - ha detto il suo legale - anche per non abbandonare i suoi genitori durante la vecchiaia".

Il clamoroso no di Liu Xiaobo e di sua moglie Liu Xia, costretta agli arresti domiciliari dal giorno dell'annuncio del Nobel, è lo schiaffo estremo al partito comunista cinese e fa risalire al massimo la tensione in vista della cerimonia del 10 dicembre. Sul palco di Oslo, per la prima volta in oltre un secolo, al posto del premiato sarà esposta una sedia vuota. Questa rappresentazione shock, secondo il comitato del Nobel e i dissidenti cinesi, "dovrà
richiamare l'attenzione del mondo sulla situazione dei diritti umani nella seconda potenza economica del pianeta".

A ritirare il premio, mentre Liu Xiaobo sarà rinchiuso in una cella a cinquemila chilometri di distanza, sarà infine il dissidente Yang Jianli. Amico di Xiaobo, compagno di proteste nel 1989, esiliato negli Stati Uniti e docente all'universtà di Harvard, è stato incaricato via Twitter da Liu Xia. La moglie del Nobel aveva rivolto un appello a 143 intellettuali cinesi, invitandoli a raggiungere Oslo. La polizia di Pechino nelle ultime settimane ha però effettuato centinaia di arresti. Famigliari e amici di Liu Xiaobo sono stati isolati, sono scomparsi, oppure sono stati bloccati negli aeroporti e alla frontiera. "A Oslo - ha detto Yang Jianli - aggiungeremo una sedia vuota anche per Liu Xia. Questa assenza urlerà più di ogni parola e contribuirà a presentare l'intero movimento democratico cinese, che ama la sua patria".

Su richiesta dei coniugi agli arresti, Yang Jianli e gli attivisti che riusciranno a raggiungere Oslo chiederanno a Pechino "di liberare immediatamente Liu Xiaobo e sua moglie". In Norvegia venerdì prossimo sono attesi centinaia di sostenitori dei diritti umani, tutti esuli, che protesteranno davanti all'ambasciata cinese. Le manifestazioni però sono già iniziate. Vincent Huang, artista cinese riparato a Taiwan, ha bloccato ieri il traffico di Londra con una "performance di denuncia". Un dissidente cinese, bendato e imbavagliato, ha sfilato per le vie del centro su un carro trainato da buoi, secondo la tradizione delle condanne all'onta pubblica dell'epoca imperiale. Pechino ha reagito con una nuova retata. Tra i fermati anche lo scrittore Xie Chaoping e l'economista Mao Yushi, in partenza per un convegno internazionale a Singapore. Un portavoce del ministero degli esteri è tornato inoltre a minacciare la Norvegia. "Sarà difficile - ha dichiarato Jiang Yu - mantenere relazioni amichevoli, come in passato". Secondo Pechino, il governo di Oslo è colpevole di "aver espresso sostegno al Nobel per la pace, assegnato ad un criminale cinese condannato da un tribunale, compiendo una flagrante sfida e una grossa interferenza".

Sono 36 le nazioni, tra cui l'Italia, che sfideranno la vendetta cinese inviando il proprio ambasciatore alla cerimonia del premio. Tra i presenti anche la speaker della Camera Usa, Nancy Pelosi. Una scelta delicata, nella fase più critica del confronto Cina-Stati Uniti e alla vigilia del viaggio di gennaio di Hu Jintao a Washington. 

Da larepubblica.it

mercoledì 24 novembre 2010

Rompi il silenzio

Eterna giovinezza

Da ilgiornale.it
Le parole non bastano. Così parlò Yukio Mishima, e il 25 novembre del 1970 si uccise davanti alle telecamere col rito tradizionale del seppuku. Alle parole seguì il gesto e la scrittura debordò nella vita per compiersi nella morte. Il suicidio eroico di Mishima scosse la mia generazione, versante destro. Era il nostro Che Guevara, e sposava in capitulo mortis la letteratura e l’assoluto, l’esteta e l’eroe, il Superuomo e la Tradizione. Lasciò un brivido sui miei quindici anni. Poi diventò un mito a diciassette, quando uscì in Italia Sole e acciaio, il suo testamento spirituale. È uno di quei libri che trasforma chi lo legge; gustato riga per riga, non solo letto ma vissuto, come un libro d’istruzioni per montare la vita, pezzo per pezzo. Altro che Ikea, il pensare si riversava nell’agire. Le parole non bastano.
Andammo in palestra, dopo quel libro, tra i manubri e i pesi, sulla scia di Mishima e del suo acciaio per scolpire il corpo all’altezza dei pensieri e per dare una vita ardita a un’indole intellettuale. Correvamo a torso nudo d’inverno con alcuni pazzi amici per andare incontro al sole. Dopo una corsa di dieci chilometri c’era un ponte che era la nostra meta finale perché sembrava che corressimo verso il cielo. Arrivavamo sfiniti ma a testa alta, con uno scatto finale, e una benda rossa sulla fronte. Pazzi che eravamo, illusi di gloria. Ridicoli. Vedevamo il sole come obbiettivo, non guardavamo sotto, all’autostrada, che banalmente scorreva sotto il ponte. Eravamo nella via del Samurai, mica sull’asfalto. Inseguivamo il mito. Un mito impolitico, che ci portava lontano dall’impegno militante e ci avvicinava a quella comunità eroica che Mishima aveva fondato due anni prima di darsi la morte. Mishima diventò col tempo il nostro Pasolini, disperato cantore di un mondo antico contro il mondo moderno e le sue macerie spirituali, l’americanizzazione e i consumi. Oggi di Mishima non è più proibito parlare, tutte le sue trasgressioni restano vietate, eccetto una che però basta a glorificarlo agli occhi del nostro tempo: Mishima era omosessuale. Sposato, ma omosessuale. E così viene oggi celebrato dai media e riabilitato.
Su Radio3 è andato in onda qualche giorno fa un bel programma a lui dedicato di Antonella Ferrera. Ho scritto più volte di lui, accostandolo al Che, d’Annunzio e Pasolini. Fu grande gioia ripubblicare, con un mio saggio introduttivo, Sole e acciaio, dieci anni dopo la sua prima lettura. Avevo ventisette anni ma avevo un conto in sospeso con la mia giovinezza, e fui felice di onorarlo. Il peggior complimento che ricevetti fu da un professore che allora mi disse: è più bella la tua introduzione del testo. Mi piace ricevere elogi, non nego la vanità. Ma quell’elogio fu peggio di un insulto, disprezzava il breviario della nostra gioventù. Come poteva paragonare un saggetto giovanile e letterario a un testamento spirituale così denso e forte? L’ho riletto dopo svariati anni, quel piccolo libro; non era un libro sacro, d’accordo, ma lo trovai ancora bello e teso, spirituale e marziale.
Poi c’era Mishima romanziere, gran letterato, ma poco rispetto al testimone dell’Assoluto. Certo, Mishima soffriva di narcisismo eroico, c’era in lui una componente sadomaso e molto di quel che lui attribuiva allo spirito dell’antico Giappone imperiale proveniva in realtà dalla letteratura romantica d’occidente e dalle sue letture. Mishima era stato lo scrittore più occidentale del Giappone, era di casa in America, veniva in Italia, amava Baudelaire e d’Annunzio, Keats e Byron, perfino Oscar Wilde. Faceva il cinema, scriveva per il cinema e per il teatro moderno, amava i film di gangster, era amico di Moravia. E c’era in lui quell’intreccio di vitalismo e decadentismo comune agli esteti nostrani. La stessa voluttà del morire di d’Annunzio, lo stesso culto della bella morte degli arditi e poi di alcuni fascisti di Salò... 
Ma il miracolo di Mishima fu proprio quello: ritrovare nella modernità occidentale il cuore antico del suo Giappone, il culto dell’imperatore, la via del samurai, il pazzo morire; il nostro pensiero e azione che diventano in Giappone il crisantemo e la spada. Ribelle per amor di Tradizione. Certo, dietro il suicidio non c’è solo il grido disperato e irriso verso lo spirito che muore; c’è anche il gusto del beau geste clamoroso e c’è soprattutto l’orrore della vecchiaia, del lento e indecoroso morire nei giorni, negli anni. Dietro il samurai c’era Dorian Gray. Ma colpisce la sua cerimonia d’addio, vestito di bianco come si addice al lutto in Giappone, e prima il suo congedo in scrittura. Saluto gli oggetti che vedo per l’ultima volta... Mi siedo a scrivere e so che è l’ultima volta... Poi il pranzo dai genitori alla vigilia, la ripetizione fedele delle abitudini, come se nulla dovesse accadere. E il giorno dopo conficcarsi una lama nel ventre e farsi decapitare, dopo aver gridato tra le risa dei soldati, l’occhio delle telecamere e il ronzio degli elicotteri, il suo discorso eroico caduto nel vuoto.
Quell’immagine ti resta conficcata dentro, come una spada, capisci che l’unica morale eroica è quella dell’insuccesso, pensi che il successo arrivi quando il talento di uno si mette al servizio della stupidità di molti; diffidi delle vittorie e accarezzi la nobiltà delle sconfitte. E leggi Morris e la Yourcenar che a Mishima dedicò uno splendido testo, per accompagnare con giuste letture il suo canto del cigno. Su quegli errori si fondò la vita di alcuni militanti dell’assoluto, alla ricerca di una gloria sovrumana che coincideva con la morte trionfale, la perdita di sé nel nome di una perfetta eternità... Perciò torno oggi in pellegrinaggio da Mishima e porto un fiore di loto ai suoi 45 anni spezzati, e ai nostri quindici anni spariti con lui.

domenica 21 novembre 2010

Wandervögel: storie di inizio secolo

All'inizio del Novecento, uno studente liceale di Berlino, Karl Fischer, diede vita al gruppo dei Wandervögel, "uccelli migratori". In origine si trattava soltanto di un manipolo di ragazzi del quartiere di Steglitz. Ma già nel 1904 i Wandervögel erano migliaia, sparsi per tutta la Germania.
I Wandervögel erano animati da un acceso spirito antiborghese che si esprimeva nella vita del campo, del cameratismo. Disprezzavano i miti borghesi del denaro, della felicità materiale, del successo, della vita comoda, oltre che gli pseudo-valori della società liberaldemocratica e della sua ideologia.
Ancorché estranei alla vita politica, i Wandervögel erano nazionalisti. Sognavano la 'rinascita' della Patria attraverso i Männerbunde (ordini virili), piccole élite unite dal culto dell'amicizia e del cameratismo.
Il pregevole saggio di Winfried Mogge (direttore dell'Archivio del Movimento giovanile tedesco) ha l'indubbio merito di contribuire alla riscoperta dei Wandervögel, dopo decenni di messa al bando perché ingiustamente assimilati alla gioventù nazionalsocialista.
L'Autore spiega che ad accomunare e caratterizzare i Wandervögel erano "un certo modo di vestire, l'emozione della riscoperta della canzone e della danza popolare, la liberatoria esperienza di sé all'interno del gruppo. E inoltre, e soprattutto, le escursioni, un modo di entrare in contatto con la natura che andava ben al di là del viaggiare "economico". Queste gite, infatti, in fondo non originali e riprese da motivi letterari, in quella situazione storica vennero afferrate al volo, golosamente, come possibilità di vivere la comunità e di distaccarsi, almeno per un po', dalla famiglia e dalla scuola, dagli istituti "ufficiali" della socializzazione. In questo contesto si potevano sviluppare e sperimentare modi di vivere e di comportarsi propri e nuovi: nei gruppi si poteva assaporare <>, nelle leghe si poteva articolare la protesta contro il mondo in cui si viveva e riflettere su altre e migliori possibilità di essere uomini. Nel manifesto programmatico elaborato e divulgato sull'Alto Meissner non c'erano dichiarazioni concrete su come dovesse apparire l'agognato futuro; ma venivano espressi, in sintesi, i desideri e le nostalgie di questo Movimento giovanile: <>".
Nella Prefazione, Oliviero Toscani, provocatorio maestro della fotografia, rende omaggio ai Wandervögel: "Fin da quando eravamo studenti a Zurigo, quando ci incontriamo tra compagni, continuiamo a scambiarci l'augurio Gut Licht (buona luce), il saluto dei Wandervögel, che attraverso l'uso della loro "cassettina della luce", la macchina fotografica, seppero far conoscere e imporre un preciso stile di vita".
Il libro di Winfried Mogge - corredato di un cospicuo apparato iconografico - è pubblicato dalle Edizioni Socrates (http://www.edizionisocrates.com).

venerdì 19 novembre 2010

Aspetti religiosi e storici del Tibet




di Gianluca Padovan - RINASCITA

In questi ultimi decenni vari personaggi hanno visto il Tibet come uno degli ultimi territori del Pianeta dove si siano conservate le antiche tradizioni dei cosiddetti “indoeuropei”. 
Difatti non si esclude l’ipotesi che le ondate migratorie dall’Europa, avvenute tra il terzo e il primo millennio prima dell’anno zero, abbiano interessato anche questi altopiani, portandovi genti e tradizioni europee. Fino a ieri potevamo osservare che a una quota media di 4000 metri si è sviluppata una cultura che si è mantenuta sostanzialmente indipendente nel corso dei secoli: essa avrebbe avuto tanto da insegnare (o da ricordare) a noi europei rimasti si nelle nostre terre, ma in gran parte privati del nostro retroterra culturale. Gli studi sulla preistoria tibetana sono quasi totalmente mancanti, seppure siano stai riconosciuti siti inquadrabili al paleolitico superiore e al neolitico. 

La cultura megalitica è diffusa, con menhir isolati e allineamenti; ad esempio: “a Do-ring, esistono 18 file di monoliti”. La lingua tibetana presenta numerosi dialetti ed è compresa, secondo alcuni, nella famiglia sino-tibetana. Ma meriterebbe maggiore attenzione e uno studio comparato più approfondito soprattutto dei così detti dialetti. 
Riguardo le loro origini i tibetani ricordano vari miti e uno dei più antichi parla dell’esistenza di un uovo, matrice d’ogni creazione: “Quest’uovo primordiale concentrava in sé tutti gli elementi -aria, terra, fuoco, acqua e spazio- e fece nascere altre diciotto uova: da una di queste scaturì un essere informe, ma capace di pensare, che provò il bisogno di vedere, toccare, ascoltare, sentire, gustare e spostarsi e allora creò a sua volta il corpo umano”. 
L’ordine costituito viene da Nyatri Tsen-po, un re guerriero del cielo che indossa un elmo metallico, i cui simboli del potere sono l’armatura che s’infila da sola e gli oggetti magici che agiscono da soli: la lancia, la spada e lo scudo. Questa sorta di semidio è comunque mortale: “Al momento della morte terrena il suo corpo si trasformò in un arcobaleno e gli permise di risalire nella sua prima patria: lo spazio infinito dove giace in una tomba eterea”.
Parlando del profilo storico del Tibet, Padma Sambhava traccia un interessante disegno: “I tibetani hanno sempre chiamato il proprio paese Bö, in qualche occasione aggiungendo Khawajen, Terra delle Nevi. La storia documentata risale a circa 2300 anni fa, al tempo dell’Impero Macedone in Occidente, dell’Impero Maurya in India, e del tardo Impero Chou in Cina. Nei suoi primi otto secoli, il Tibet fu governato da una dinastia militare. Aveva un sistema religioso animista, retto da un clero di sciamani esperti nella divinazione, nelle arti magiche e nei sacrifici, mentre il suo sistema di governo s’incentrava su una famiglia reale ritenuta di discendenza divina. I primi sette re discesero sulla terra a governare da una scala di corda sospesa nel cielo, sulla quale sarebbero poi risaliti non appena fosse giunta la loro ora. L’ottavo re, in seguito ad un conflitto di corte, recise la corda che lo legava al cielo e, da allora in poi, i sovrani come i faraoni egiziani, furono sepolti in ampi tumuli funerari insieme ai loro beni e al loro seguito».

Ricordando il proselitismo dei missionari cattolici, i quali dalle terre dell’India si spingono in Tibet, Giuseppe Tucci riporta un loro raffronto tra mussulmani, induisti e lamaisti, che così si delinea nella considerazione di questi ultimi: “La severa organizzazione dei monasteri, l’abilità dialettica dei maestri, le sottigliezze teologali discusse con arguto vigore di logica nelle radunanze di monaci e l’austerità di molti riti ben disposero la loro anima al Buddismo Tibetano”. 
Parlando del buddhismo non si può dimenticare che il quattordicesimo Dalai Lama Tenzin Gyatso, guida spirituale e politica del Tibet, nonché Nobel per la Pace nel 1989, vive esule in India dal 1959. Dalai Lama è il titolo dato al capo della religione buddista-lamaista residente a Lhasa (Tibet) nel Palazzo del Potala. Nel 1950 le truppe cinesi del governo comunista maoista attaccano il Tibet e con il trattato del 23 maggio 1951 lo stato è integrato nella Repubblica Popolare Cinese. Sono lunghe e complesse le vicende politiche, religiose e militari che vedono coinvolto il territorio tibetano da circa duemila anni; basterà qui ricordare che nel 1720 la Cina interviene militarmente imponendo due propri commissari accanto al Dalai-Lama dell’epoca. Così racconta Thubten Dschigme Norbu, fratello maggiore del Dalai Lama, nonché abate del monastero buddista di Kumbum situato nei pressi di Sining in Cina: “Ancora una volta dovetti recarmi a Sining dalla commissione per il Tibet. Mi dichiararono che dovevo condurre con loro due coniugi e un radiotelegrafista cinesi; quest’ultimo doveva restare sempre in comunicazione con Sining, per informarli costantemente di quanto accadeva alla nostra carovana. Acconsentii a malincuore. Nel loro discorso i comunisti deposero completamente la maschera. Senza preamboli mi sottoposero delle proposte che mi atterrirono e mi irritarono. Quel che dovetti udire era talmente mostruoso, che solo a fatica potevo dominarmi. Se fossi riuscito a convincere il governo di Lhasa ad accogliere le truppe della Repubblica Popolare Cinese come esercito di liberazione e a riconoscere la Cina comunista, sarei stato nominato governatore generale del Tibet. Come tale avrei guidato e sostenuto la grande opera di ricostruzione, in cui la nostra religione sarebbe stata sostituita dall’ideologia comunista. Se il Dalai Lama si fosse opposto, avrei trovato modi e mezzi per levarlo di mezzo. Mi fecero intendere che anche il fratricidio è giustificato, quando si tratta di realizzare le idee comuniste. Portarono esempi, che dimostravano come simili fatti fossero stati premiati con le più alte cariche”.6 
Dal 1950 ad oggi più di un milione di tibetani sono morti a causa dell’occupazione cinese, circa seimila monasteri sono stati distrutti e decine di migliaia di persone deportate, tra cui molti monaci. Il territorio è oggetto di un ben preciso programma di deculturazione ed è indiscriminatamente usato per lo stoccaggio di rifiuti nocivi, tossici e radioattivi. Sostanzialmente è diventato la “pattumiera della Cina”. 
Gli stati europei stanno a guardare, abbagliati dal mito cinese che irradia la luce del facile guadagno, con l’avvallo di industriali e imprenditori europei nella non considerazione degli operai-schiavi cinesi, decisamente meno impegnativi degli odierni operai-disoccupati europei, nuovi poveri mondiali. 

Nonostante questo Dalai Lama non abbia mai proferito una parola contro l’aggressione cinese. In un suo recente libro, L’arte di essere pazienti, riporta le parole di Acharya Shantideva, illuminato buddista dell’VIII sec.: (64) “Anche se altri diffamassero o persino distruggessero immagini sacre, reliquiari e il sacro dharma, è erroneo che io mi arrabbi perché i Buddha non potranno mai essere oltraggiati”.
Commenta poi così lo scritto: “Si potrebbe cercare di giustificare lo sviluppo dell’odio nei confronti di chi oltraggia tali oggetti con l’amore per il dharma. Shantideva però afferma che non è questa la risposta giusta, giacché in realtà si reagisce in quanto si è incapaci di sopportare il gesto. Ma gli oggetti sacri non possono essere danneggiati”.

Parlando recentemente con “vecchi” comunisti italiani sono rimasto lievemente perplesso nell’udire che il Dalai Lama è da questi considerato un oppressore del suo popolo, perché ha cercato di mantenere in pieno XX secolo i tibetani in uno stato medievale. Mi ha sconcertato l’acriticità e la scorrettezza delle loro argomentazioni e laconicamente potrei commentare che l’indottrinamento di stampo comunista in Cina permane e i vecchi comunisti italiani guardano a tutto ciò con occhi sognanti. Ad ogni buon conto se delle radici europee c’erano, adesso, anche grazie ai “nuovi europei”, possiamo stare quasi certi che siano scomparse. Ma la speranza, come recita un saggio nostrano, è l’ultima a morire e personalmente credo che qualcuno in Europa rimarrà desto a studiare, a capire e a tramandare.

mercoledì 17 novembre 2010

Solo una risposta a Saviano?

Era latitante da oltre 14 anni. Applauso dei poliziotti all’arrivo in Questura * NOTIZIE CORRELATE * Il ritratto: «’O ninno», il delfino di Sandokan CASAL DI PRINCIPE. saviano: «aspettavo questo giorno da 14 anni» Arrestato il boss Antonio Iovine È uno dei capi storici dei Casalesi. Era latitante da oltre 14 anni. Applauso dei poliziotti all’arrivo in Questura Antonio Iovine Antonio Iovine CASERTA - Ha tentato di fuggire dal terrazzo. L’ultimo, disperato tentativo. La lunga latitanza di Antonio Iovine è però finita. Il boss della camorra, considerato uno dei criminali più pericolosi dal Viminale, è stato arrestato a Casal di Principe. Il blitz della Squadra Mobile di Napoli ha avuto successo: Iovine, che non era armato, alla fine non ha opposto alcuna resistenza. L’abitazione in cui è stato individuato era di un suo conoscente, e la cattura è stata possibile grazie a pedinamenti e accertamenti su parenti e fedelissimi del latitante. Gli inquirenti si sono messi subito alla ricerca di eventuali armi e documenti che potrebbero tornare utili per le indagini sulla potente cosca dei Casalesi. Iovine è stato poi trasportato a bordo di una Mercedes in Questura a Napoli dove è arrivato alle 16,48. Era sorridente. Il boss è stato fatto salire al secondo piano dai garage, mentre applausi e urla di soddisfazione da parte poliziotti risuonavano nei corridoi. Qualcuno applaudiva anche dalle finestre. LE REAZIONI - «Oggi è una bellissima giornata per la lotta alla mafia, tra pochi minuti vedrete...» aveva affermato il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, conversando con i giornalisti a Montecitorio, appena pochi minuti prima che arrivasse l’annuncio dell’arresto del boss. «È un giorno felice - ha confermato il procuratore capo di Napoli, Giandomenico Lepore - anche perché l’operazione dimostra che forze dell’ordine e Dda di Napoli riescono a ottenere importanti risultati sul territorio. Iovine - ha proseguito - era uno dei due latitanti più importanti dei Casalesi, l’altro è Michele Zagaria. Ora ci resta da arrestare anche lui». «Firmerò subito la richiesta di 41 bis» ha annunciato dal canto suo il ministro della Giustizia, Angelino Alfano. «Questa è una ulteriore conferma - aggiunge - che la squadra Stato vince e l’antimafia giocata batte quella parlata». L’arresto di Iovine è la migliore risposta a tante chiacchiere». GUARDA il video dell’arresto sul Corriere del Mezzogiorno SAVIANO - Sull’arresto del boss dei casalesi è intervenuto anche lo scrittore Roberto Saviano in questi giorni sotto i riflettori per la trasmissione televisiva che conduce con Fabio Fazio e per la polemica che l’oppone a Maroni a seguito delle dichiarazioni rilasciate prima in tv e poi in un’intervista: «Aspettavo questo giorno da quattordici anni. L’arresto di Antonio Iovine , rappresenta un passo fondamentale nel contrasto alla criminalità organizzata. Iovine è un boss imprenditore, in grado di gestire centinaia di milioni di euro. Ora - continua Saviano - spero che si possa fare pulizia a 360 gradi. Come dimostrato dalla relazione della Dia di oggi, bisogna aggredire il cuore dell’economia criminale, la Lombardia, dove le mafie fanno affari e influenzano la vita economica, sociale e politica». Il boss subito dopo l’arresto (Ap) Il boss subito dopo l’arresto (Ap) CHI È - Antonio Iovine, detto O’ninno, era nella lista del Viminale dei 30 latitanti più pericolosi, assieme - tra gli altri - a Matteo Messina Denaro, numero uno di Cosa Nostra, e Michele Zagaria, dei Casalesi. Quarantasei anni, nativo di San Cipriano d’Aversa (Caserta), Iovine deve scontare la pena dell’ergastolo comminata nei suoi confronti in sede di appello al maxiprocesso Spartacus, nel giugno del 2008. Componente con Zagaria della diarchia che dalla latitanza ha diretto gli affari criminali del clan, Iovine è considerato il ’boss manager’, la mente affaristica del sodalizio impegnato tra le altre attività anche nel business della spazzatura. A lui viene attribuita la capacità del clan di espandere i propri interessi ben oltre i confini campani. È Iovine, per gli inquirenti, a rappresentare per anni la camorra che fa affari e che ricicla i proventi delle attività illecite, droga e racket su tutte, nell’economia pulita e nel business del cemento fino a costruire l’impero di ’Gomorra’, come testimoniato dai continui sequestri di beni disposti da parte della magistratura. ] uno dei capi storici dei Casalesi. Era latitante da oltre 14 anni. Applauso dei poliziotti all'arrivo in Questura

CASERTA - Ha tentato di fuggire dal terrazzo. L'ultimo, disperato tentativo. La lunga latitanza di Antonio Iovine è però finita. Il boss della camorra, considerato uno dei criminali più pericolosi dal Viminale, è stato arrestato a Casal di Principe. Il blitz della Squadra Mobile di Napoli ha avuto successo: Iovine, che non era armato, alla fine non ha opposto alcuna resistenza. L'abitazione in cui è stato individuato era di un suo conoscente, e la cattura è stata possibile grazie a pedinamenti e accertamenti su parenti e fedelissimi del latitante. Gli inquirenti si sono messi subito alla ricerca di eventuali armi e documenti che potrebbero tornare utili per le indagini sulla potente cosca dei Casalesi. Iovine è stato poi trasportato a bordo di una Mercedes in Questura a Napoli dove è arrivato alle 16,48. Era sorridente. Il boss è stato fatto salire al secondo piano dai garage, mentre applausi e urla di soddisfazione da parte poliziotti risuonavano nei corridoi. Qualcuno applaudiva anche dalle finestre.

LE REAZIONI - «Oggi è una bellissima giornata per la lotta alla mafia, tra pochi minuti vedrete...» aveva affermato il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, conversando con i giornalisti a Montecitorio, appena pochi minuti prima che arrivasse l'annuncio dell'arresto del boss. «È un giorno felice - ha confermato il procuratore capo di Napoli, Giandomenico Lepore - anche perché l'operazione dimostra che forze dell'ordine e Dda di Napoli riescono a ottenere importanti risultati sul territorio. Iovine - ha proseguito - era uno dei due latitanti più importanti dei Casalesi, l'altro è Michele Zagaria. Ora ci resta da arrestare anche lui». «Firmerò subito la richiesta di 41 bis» ha annunciato dal canto suo il ministro della Giustizia, Angelino Alfano. «Questa è una ulteriore conferma - aggiunge - che la squadra Stato vince e l'antimafia giocata batte quella parlata». L'arresto di Iovine è la migliore risposta a tante chiacchiere».

GUARDA il video dell'arresto sul Corriere del Mezzogiorno

SAVIANO - Sull'arresto del boss dei casalesi è intervenuto anche lo scrittore Roberto Saviano in questi giorni sotto i riflettori per la trasmissione televisiva che conduce con Fabio Fazio e per la polemica che l'oppone a Maroni a seguito delle dichiarazioni rilasciate prima in tv e poi in un'intervista: «Aspettavo questo giorno da quattordici anni. L'arresto di Antonio Iovine , rappresenta un passo fondamentale nel contrasto alla criminalità organizzata. Iovine è un boss imprenditore, in grado di gestire centinaia di milioni di euro. Ora - continua Saviano - spero che si possa fare pulizia a 360 gradi. Come dimostrato dalla relazione della Dia di oggi, bisogna aggredire il cuore dell'economia criminale, la Lombardia, dove le mafie fanno affari e influenzano la vita economica, sociale e politica».

Il boss subito dopo l'arresto (Ap)
CHI È - Antonio Iovine, detto O'ninno, era nella lista del Viminale dei 30 latitanti più pericolosi, assieme - tra gli altri - a Matteo Messina Denaro, numero uno di Cosa Nostra, e Michele Zagaria, dei Casalesi. Quarantasei anni, nativo di San Cipriano d'Aversa (Caserta), Iovine deve scontare la pena dell'ergastolo comminata nei suoi confronti in sede di appello al maxiprocesso Spartacus, nel giugno del 2008. Componente con Zagaria della diarchia che dalla latitanza ha diretto gli affari criminali del clan, Iovine è considerato il 'boss manager', la mente affaristica del sodalizio impegnato tra le altre attività anche nel business della spazzatura. A lui viene attribuita la capacità del clan di espandere i propri interessi ben oltre i confini campani. È Iovine, per gli inquirenti, a rappresentare per anni la camorra che fa affari e che ricicla i proventi delle attività illecite, droga e racket su tutte, nell'economia pulita e nel business del cemento fino a costruire l'impero di 'Gomorra', come testimoniato dai continui sequestri di beni disposti da parte della magistratura.

giovedì 11 novembre 2010

Dove andiamo


E' strano notare come l'agenda mediatica odierna abbia la grande caparbietà di saltellare da una notizia di cronaca nera alla crisi di governo, dal gossip politico al disastroso crollo delle borse,  senza grandissimi sforzi e senza creare alcun collegamentro logico, eppure esiste un nesso quasi incomprensibile tra le tragedie e le disfatte che ci propinano tutti i giorni, un nesso che riesce a collegare ogni evento, ogni situazione. Tutti i telegiornali  non possono che cominciare parlando di un lutto, che sia umano, sociale ed economico non importa, l'importante è che faccia notizia e che sia macabro al punto giusto per alzare lo share quotidiano, ed e' curioso notare come questa "sfiducia" si annidi un pò ovunque. Non si sa se il processo sia partito dalle persone e poi arrivato su internet, sulle radio e le tv oppure abbia fatto il percorso inverso, sta di fatto che, da ormai un pò di tempo, va di moda perdere le sfide con gli altri e con se stessi e certamente "godiamo" sempre di più nel vedere perdere gli altri. Il gusto della disfatta, del decadimento, del degrado prendono piede ovunque, sarà forse la conseguenza della crisi o il sempre più vicino 2012?
E' abbastanza facile estrapolare una serie di deduzioni  consecutive a questa perenne discesa. Se dovessimo elencare una serie di cose che hanno portato a questo disfattismo sicuramente enunceremo l'antipolitica, la "delocalizzazione dell'umanità", il distanziarsi continuo delle persone, la mancanza di fiducia in qualsiasi momento della quotidianità; questi e tanti altri fattori hanno contribuito a distruggere quel poco che era rimasto del sentimento di Comunità, nel momento in cui questa parola porta con se i significati di gruppo, disinteresse, continuità, lungimiranza, compattezza. Questo sgretolamento della coscenza nazionale o semplicemente del sentimento di fiducia, affonda forti radici nella nostra modernità, un' epoca che utilizza potentissimi strumenti per cercare di distruggere subdolamente ciò che è rimasto dell'umanità. Il continuo flusso di informazioni, comunicazioni, superficiali contatti, c'hanno fatto credere di riuscire ad essere onnipresenti creando così dei distorti processi sociologici (la maggior parte delle volte controproducenti) ad esempio ci capita spesso di pensare di tenere a delle persone per ciò che scrivono e non per ciò che sono, di ricordarsi di alcuni amici perchè li abbiamo visti ma non ci abbiamo parlato, di conoscere situazioni sentimentali ed emotive per sentito dire o anche solo per esserselo fatti raccontare da una schermata. Questa soppressione del contatto umano e frenetizzazione del rapporto sociale non avrebbe alcuna via d'uscita nel caso si pensasse di sabotare o boicottare gli strumenti che la modernità ci propone, non è un caso che questo articolo è scritto su un blog, ed anche se voi non conoscete gli occhi della persona che lo sta scrivendo, un messaggio, giusto o sbagliato, vi arriverà.
La potenziale soluzione di questa crisi dell'umanità, risiede nelle piccole Comunità, nella famiglia, tra gli amici ed in quei tanti "gruppi" di uomini che si riuniscono ed hanno un obiettivo comune, uno scopo da perseguire o semplicemente un destino da condividere. Gruppi laici o religiosi che, capaci e consapevoli, utlizzano la modernità, la cavalcano in maniera responsabile e fanno di essa uno strumento per creare altra comunità, per aggregare e non disgregare, per costruire e non distruggere. I media, la pubblicità, le tecnologie tutte non devono avere altra funzione che ricreare rapporti umani, stimolare alla compattezza, alla fiducia, devono essere il primo passo per ritornare a noi stessi e agli altri, il cemento armato per saldare ponti e non per far crollare città. Per far si che ciò avvenga sono due le possibilità: o la responsabilizzazione di chi fa comunicazione o il ritorno alla consapevolezza di chi la riceve. Noi crediamo in entrambie le cose...

A.M.

Washington: false vittime della Shoah per ottenere rimborsi


Non possiamo far altro che copiare ed incollare la notizia sul nostro blog. Abbiamo pensato a come meglio sarebbe stato commentarla ma, sinceramente, non c'è venuto in mente alcuna parola da sprecare
ANSA) -WASHINGTON,10 NOV- Hanno falsificato centinaia di carte e documenti inventando false vittime della Shoah e ottenendo cosi' rimborsi per 42 mln di dlr negli ultimi 16 anni. Questa megatruffa, scoperta dall'Fbi, e' stata opera di 11 impiegati di un fondo di NY specializzato nella difesa degli interessi dei superstiti dell'Olocausto. Questa organizzazione era nata negli anni '50 per dare assistenza finanziaria agli ebrei che dimostravano di essere stati perseguitati dalla barbarie nazista nella 2/a guerra mondiale.

lunedì 8 novembre 2010

Liberi!

 “Le immagini e le notizie che da questa mattina stanno facendo il giro del web, sulla situazione del Sahara Occ e con riferimento in particolare al campo di El Aayun, nel quale si stanno susseguendo numerosi attacchi da parte della polizia marocchina alla popolazione Saharawi, dimostrano con forza la necessità di intervenire. Non si può fare finta di nulla, la situazione sta degenerando.” È quanto dichiara Chiara Colosimo, consigliere regionale e creatrice dell’intergruppo a favore del popolo Saharawi in consiglio regionale.  “ La gravità della situazione ci appare chiara, non solo dalle notizie lette stamani sulle agenzie, ma anche dalle parole di Handud Hamdi, rappresentante del popolo  Saharawi,  ricevuto questa mattina dalla Consigliera Isabella Rauti, membro dell’ufficio di presidenza,  il quale ha  raccontato gli ultimi avvenimenti di questa dura lotta, e ha successivamente invitato il Consiglio Regionale alla festa del Parlamento Saharawi, che si terrà dal 27 al 29 novembre nel campo rifugiati di Tindouf. Da circa venti anni questa popolazione ha abbandonato la strada della violenza firmando un cessate il fuoco con il Marocco, in attesa di una soluzione pacifica; considerando la condizione attuale e l’attacco di quest’oggi, penso sia chiara l’esigenza da parte delle Istituzioni di velocizzare tramite via diplomatiche questa pace, per permettere a questa popolo di poter vivere da uomini liberi nella propria terra. ”

Mai più 11 Novembre

 

Nella Stazione di Servizio Badia Al Pino Est (Arezzo), la mattina dell’11 Novembre 2007 venne ucciso Gabriele Sandri, giovane di 26 anni, raggiunto a bordo dell’auto su cui viaggiava da un colpo di pistola esploso dall’agente della Polizia di Stato Luigi Spaccarotella, posizionato nell’altra carreggiata dell’Autostrada del Sole. Nel processo di primo grado il poliziotto è stato condannato per omicidio colposo: il 1° Dicembre 2010 si celebrerà il processo d’appello, cui la famiglia Sandri e la Procura Generale presso la Corte d’Appello sono ricorse sostenendo la tesi dell’omicidio volontario.

Per non dimenticare Gabriele Sandri e per fare memoria storica condivisa, riaffermando i principi fondanti di uno Stato di Diritto libero, democratico e garantista, i sottoscritti cittadini chiedono alla società Autostrade per l’Italia SpA, alla società Autogrill SpA, alla Provincia di Arezzo, al Comune di Arezzo e alla Regione Toscana di consentire l’apposizione di una targa commemorativa all’interno della Stazione di Servizio Badia Al Pino Est, recante la dicitura “Nel ricordo di Gabriele Sandri, cittadino italiano. Comitato Mai Più 11 Novembre”.



Si dichiara che ai sensi del D.Lgs. 30/6/03 N° 196 “Codice in materia di protezione dei dati personali”,
le informazioni fornite saranno utilizzate esclusivamente per la presente petizione promossa dal comitato di fatto “Mai Più 11 Novembre”

martedì 2 novembre 2010

LEGGI, PENSA, PARLA

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LiberiamoLiu

La Giovane Italia di Roma e la ONLUS LAOGAI RESEARCH FOUNDATION ITALIA lanciano questo appello. Un appello rivolto a tutti quelli che credono ancora nell’importanza della vita, della libertà e della civiltà. Un appello per la liberazione di Liu Xiaobo e Liu Xia, eroi dei nostri giorni, che vivono sacrifici e persecuzione, ma che continuano con il loro esempio a dare testimonianza dell’esistenza di una Cina diversa, una Cina che vuole cambiare.

lunedì 2 agosto 2010

I SOSTENITORI DELL'INNOCENZA



" Signor presidente, da quella lapide dobbiamo togliere le parole "strage fascista", perché ciò è riduttivo e fa parte del depistaggio operato sulla strage di Bologna, diversa dalle altre stragi e che ha molto più a che fare con Ustica e con i rapporti tra Italia, Francia, Stati uniti, i servizi occidentali e le strutture segrete. Dire che sono stati Fioravanti e compagni è stato un depistaggio: su quella lapide bisogna scrivere "strage di stato"! "

Contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, le parole dinnanzi richiamate non appartengono ad un esponente politico di destra. A pronunciarle, infatti, fu l’Onorevole Luigi Cipriani, deputato di Democrazia Proletaria, nel 1990, in occasione del decimo anniversario della Strage di Bologna.
Le affermazioni dell’autorevole esponente di DP, un partito a suo tempo collocato a sinistra dello stesso partito comunista, non lasciano spazio ad equivoci: lastoriadella strage fascista e delle responsabilità di Mambro, Fioravanti e Ciavardini rientra a pieno titolo nei depistaggi che hanno impedito di trovare la Verità in ordine alla vicenda più drammatica della storia italiana del dopoguerra.
La difesa accanita dell’innocenza dei “neri”, da parte di un deputato demoproletario non può certo spiegarsi in termini ideologici.
Pertanto, tale presa di posizione rende alla perfezione il senso assolutamente trasversale di questa battaglia di Giustizia: la Verità appartiene a tutti i cittadini e non bastano i colori politici per accettare colpevoli di comodo.
Lo dimostra la lunga schiera di parlamentari di sinistra che non fa mistero delle proprie perplessità circa il teorema giudiziario relativo alla Strage di Bologna.
Ad esempio, Ersilia Salvato di Rifondazione Comunista e Luigi Manconi dei Verdi aderirono al celebre comitato “e se fossero innocenti?”, composto in maggioranza - non a caso – da persone non solo lontane dalla destra ma, addirittura, contrapposte radicalmente a questa.
Detto comitato, non a caso, riscosse forti consensi anche in ambito giornalistico.
Si pensi, tra i tanti, a Sandro Curzi, direttore di “liberazione”, quotidiano di Rifondazione Comunista o ad Andrea Colombo, penna prestigiosa del “manifesto”, il quale in occasione del 25° anniversario della Strage, dopo aver esposto correttamente e con grande determinazione le ragioni dell’innocenza di Ciavardini e degli altri, ha polemizzato con una fazione della sinistra bolognese: “c'è da chiedersi se, prima di indignarsi, il Prc emiliano si sia preso la briga di consultare gli atti processuali che hanno portato alle condanne dei Nar”.
Del resto, la sensibilità per questa battaglia di Giustizia è particolarmente evidente negli ambienti del “manifesto”.
Rossanda Rossanda, nome storico del quotidiano comunista, non ha mai perso occasione per ribadire le proprie convinzioni innocentiste mentre Alessandro Mantovani, giornalista emergente del “manifesto”, ha più volte bollato il processo per la Strage di Bologna come viziato da un assai discutibile teorema giudiziario.
Tale spontaneo “fronte” dell’innocenza trova ovviamente molti consensi anche a destra.
Tra i tanti giornalisti vicini all’area del polo della libertà, che reclamano a gran voce il riconoscimento dell’innocenza di Ciavardini e degli altri, si devono ricordare Marcello De Angelis, direttore del mensile Area vicino alla destra sociale, il quale da anni si batte con accanimento per la ricerca della Verità e Gian Marco Chiocci, redattore del “giornale”, anch’egli impegnato da tempo nell’approfondimento della pista internazionale, sino a pochi anni fa’ completamente ignorata dalle autorità.
Con toni inequivocabili, anche importanti ex direttori di quotidiani di massima diffusione come il “corriere della sera” o “l’unità”, quali Paolo Mieli e Furio Colombo,hanno espresso osservazioni critiche in ordine alle sentenze di condanna di Fioravanti ed altri.
Il primo, ad esempio, scrisse parole molto forti che non si prestano a troppe interpretazioni: “non ho dubbi: quel processo è da rifare e se contro i due terroristi dei Nar non verranno fuori le prove convincenti che fin qui non sono emerse dovremmo avere, tutti, l'onestà intellettuale di chiedere a gran voce che il marchio dell'infamia (limitatamente a quel che riguarda Bologna) venga tolto dalla fronte di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. Ripeto: tutti” .
Prese di posizione concrete e particolarmente significative provengono anche dal giornalismo televisivo.
Ennio Remondino, figura storica della RAI, notoriamente schierato a sinistra, condusse la famosa inchiesta relativa al falso tumore che nel 1981 garantì la scarcerazione del teste chiave Sparti, dovendo constatare che la cartella clinica di quest’ultimo era andata distrutta in uno strano incendio divampato, proprio poco tempo prima, all’interno dell’Ospedale San Camillo di Roma.
Di tale episodio, il giornalista ha riferito addirittura alla Commissione Stragi.
Altro contributo fondamentale a questa battaglia di Verità è stato fornito da Gianluca Semprini, giornalista di sky di manifeste simpatie per “l’ulivo”, che è l’autore di “La Strage di Bologna. Luigi Ciavardini: un caso giudiziario”.
Il libro, che può essere considerato a tutta ragione il manifesto stesso dell’innocenza di Ciavardini, viene diffuso dal nostro comitato nell’intero territorio nazionale e sta riscuotendo un successo enorme anche tra i giovanissimi.
Non da ultimo, merita di essere ricordata la posizione assunta da tempo da Sandro Provvisionato, giornalista di punta di Canale 5 proveniente ancora una volta da sinistra, che non si è limitato a manifestare l’innocenza degli imputati ma ha posto anche l’accento sul reale significato dei numerosi depistaggi operati dai servizi segreti deviati a danno di Ciavardini e degli altri: “è fragile il movente come sono evanescenti le prove: in pratica solo la “testimonianza” di un falsificatore di documenti, certo Massimiliano Sparti, legato alla banda della Magliana, smentito perfino dalla stessa moglie. Nel caso dei processi per la strage di Bologna in quattro casi su cinque ha però retto il teorema costruito dalla procura di Bologna, cieca perfino di fronte ai depistagli del Sismi, il servizio segreto militare che arriva a mettere una valigia di armi ed esplosivo sul treno Taranto – Bologna e a inventare una fantomatica operazione “terrore sui treni” da attribuire proprio ai neofascisti che saranno incriminati. Insomma un depistaggio che finisce col mettere gli inquirenti sulla pista che sarà poi alla base del teorema bolognese”.
Anche un opinionista di assoluto valore come Massimo Fini, difficilmente collocabile nelle tradizionali categorie politiche, è un convinto e vivace assertore dell’innocenza di Ciavardini e degli altri.
Le sentenze per la Strage di Bologna hanno suscitato forti perplessità anche negli ambienti artistici.
Vale la pena ricordare, a mero titolo esemplificativo, che al suddetto comitato “e se fossero innocenti?” aderirono sia il noto fotografo Oliviero Toscani che la celebre regista cinematografica Liliana Cavani, due persone notoriamente non schierate a destra.
Tornando al mondo della politica, merita un’attenzione particolare l’ambiente radicale, storicamente uno dei più sensibili per le questioni di Giustizia.
Uno dei rappresentanti storici dei radicali italiani, Marco Taradash, fu addirittura tra i primi in assoluto a riconoscere l’innocenza di Ciavardini, Fioravanti e Mambro.
Notevole è poi la battaglia intrapresa dal nuovo leader radicale, Daniele Capezzone, il quale non ha esitato, in occasione del venticinquesimo anniversario della Strage, di invocare persino la riapertura del processo contro i maggiorenni, Fioravanti e Mambro, reso definitivo come noto con una sentenza di condanna passata in giudicato.
Anche gli ex leader storici della sinistra e della destra radicale, pur nella loro siderale lontananza politica ed antropologica, sono accomunati da una chiara e netta posizione innocentista.
L’ex leader di “lotta continua”, Adriano Sofri, detenuto nel carcere di Pisa ha addirittura denunciato pubblicamente la questione sbalorditiva del falso tumore del teste chiave Sparti mentre Gabriele Adinolfi, ex laeder di “Terza Posizione”, è uno dei più determinati assertori dell’innocenzadi Fioravanti, Mambro e Ciavardini.
E’ ovvio, dunque, che l’elevato numero di parlamentari di AN che si batte per il riconoscimento dell’innocenza di Ciavardini e degli altri costituisce solo una parte di questo “fronte” spontaneo dell’innocenza.
Significativa, in tal senso, è l’adesione al nostro comitato dell’onorevole Giulio Maceratini, già membro del precedente comitato “e se fossero innocenti?”, uno dei primi parlamentari italiani a manifestare pubblicamente in favore dell’innocenza di Ciavardini e degli altri.
E’ poi nota la battaglia per l’individuazione dei reali responsabili della Strage, condotta dall’onorevole Enzo Raisi e dall’onorevole Enzo Fragalà nell’ambito della commissione parlamentare Mitrokhin.
Una menzione del tutto particolare la merita l’onorevole Alberto Arrighi il quale non sì è limitato ad aderire al nostro comitato ma partecipa attivamente alle nostre iniziative nelle varie città italiane.
Notevole è poi la presa di posizione di autorevoli esponenti del Governo.
Il Ministro degli Esteri Gianfranco Fini proprio di recenteha dichiarato pubblicamente la propria convinzione dell’innocenza di Fioravanti, Mambro e Ciavardini mentre il Ministro delle Politiche Agricole Gianni Alemanno è impegnato attivamente in questa battaglia di Verità sin dai tempi in cui apparteneva alle organizzazioni giovanili del vecchio MSI.
In definitiva, l’innocenza di Ciavardini e degli altri trova consensi praticamente in tutti i partiti politici italiani.
A titolo di esempio, così da rendere un’idea compiuta della vastità di tale “fronte”, si può ricordare l’adesione ufficiale al nostro comitato dell’onorevole Massimo Polledri della Lega Nord, dell’onorevole Salvatore Marano di Forza Italia, dell’onorevole Francesco Crinò dei Nuovi Socialisti, dell’onorevole Emerenzio Barbieri dell’UDC.
Di straordinaria importanza risultano essere le prese di posizioni dei due ultimi presidenti della Commissione Stragi e della Commissione Mitrokhin, appartenenti uno all’area dell’ulivo e l’altro a quello del polo delle libertà,
L’onorevole Giovanni Pellegrino, esponente di primo piano dei DS nonché ex Presidente della Commissione Stragi, per principio non ha mai voluto esprimere giudizi in ordine al libero convincimento dei Giudici di Bologna.
Ha fatto molto di più.
Pellegrino ha espresso giudizi politici molto severi in ordine alla ricostruzione dei fatti offerta: “è una sentenza appesa nel vuoto”.
Le ragioni della critica serrata formulata da Pellegrino sono note. Il teorema giudiziario dei Giudici di Bologna ha perso di credibilità smarrendo per strada movente, mandanti e un discreto numero di imputati.
Pellegrino ha più volte sostenuto che è inconcepibile ed improponibile l’aver riproposto anche in tale processo lo schema interpretativo usato nel 1969 per piazza Fontana, dovendosi collocare la Strage di Bologna in oscuri e ben più complessi scenari internazionali.
Pellegrino ha espresso il suo rammarico in quanto la Commissione Strage non ha avuto il tempo per affrontare la vicenda relativa alla Strage di Bologna, consapevole del fatto che un’inchiesta parlamentare avrebbe potuto condurre all’individuazione di colpevoli differenti da quelli supposti dai magistrati.
A sua volta, l’onorevole Paolo Guzzanti, parlamentare di Forza Italia e Presidente della Commissione Mitrokhin, pur muovendo da punti di vista diametralmente opposti a quelli del collega Pellegrino, è un convinto sostenitore dell’innocenza di Ciavardini, Fioravanti e Mambro.
Il “fronte” dell’innocenza di Ciavardini vede poi spiccare, per autorevolezza e determinazione, addirittura l’onorevole Francesco Cossiga.
Lo storico esponente della DC era ministro dell’interno all’epoca della Strage di Bologna.
Fu proprio lui, riferendo alle Camere, ad indirizzare le indagini solamente nella direzione della destra.
Cossiga si è pentito amaramente dell’errore macroscopico che segnò l’inizio di questa vicenda giudiziaria.
Già da Capo dello, Stato chiese scusa alla destra per le ingiuste ed infamanti accuse ricevute, dichiarando pubblicamente che, per ripristinare la Verità, andava rimossa dalla lapide commemorativa la frase della strage fascista.
Ancora oggi, l’ex Presidente della Repubblica prosegue la sua tenace battaglia di Giustizia battendosi per l’innocenza di Ciavardini, Fioravanti e Mambro.
Cossiga, rimproverando la natura palesemente politica dell’accanimento giudiziario subito dai tre imputati, è arrivato a definire la sentenza di condanna “giacobina e leninista”.
Il cerchio dell’innocenza viene chiuso, infine, dalle posizioni diffuse persino nell’ambiente della magistratura.
A titolo esemplificativo, si vogliono menzionare le dichiarazioni formulate da Otello Lupacchini che nel corso della sua lunga carriera di magistrato è stato Giudice proprio a Bologna.
Detto magistrato, nel suo libro sulla famigerata banda della magliana – che sta ottenendo proprio questi giorni un evidente successo -, ha manifestato in modo ampio e diffuso le ragioni dela propria convinzione circa l’innocenza di Ciavardini, Mambro e Fioravanti.
Non è passato inosservato, del resto, il giudizio espresso con inusuale sincerità, nella medesima opera, proprio sulla Procura di Bologna a cui viene rimproverato un assai discutibile rapporto con gli strumenti indispensabili della logica.
E’ giunto, dunque, il momento di tirare le somme.
Politici di tutti i partiti, da destra a sinistra, si sono schierati in favore dell’innocenza di Ciavardini, Mambro e Fioravanti.
Giornalisti di tutte le aree politiche, da sinistra a destra, hanno scritto fiumi di inchiostro per spiegare le ragioni di questa innocenza.
Uomini di Governo sono arrivati ad esporsi pubblicamente per tentare di impedire un’ingiustizia colossale.
Un ex Capo di Stato si sta battendo disperatamente per difendere tre persone innocenti.
Anche nell’ambiente della magistratura qualcuno si è sentito in dovere di porre all’attenzione pubblica una seria questione di coscienza.
Tra la gente comune, questi sentimenti sono espressi con vigore e con sincerità ancora maggiore.
E’ unanime il timore che si possa ripetere il dramma umano e giudiziario di Sacco e Vanzetti.
La società italiana ha riconosciuto da tempo l’innocenza di Luigi Ciavardini, Francesca Mambro e Giuseppe Valerio Fioravanti.
E’ arrivata finalmente l’ora della Verità.