mercoledì 26 ottobre 2011

Il fuoco del Tibet arde ancora


È il 10mo monaco ad auto immolarsi in un anno. Portato all’ospedale, rifiuta ogni cura e vuole lasciarsi morire. Pechino accusa il Dalai Lama di fomentare i suicidi. Ma in realtà i giovani che si autoimmolano sono frustrati dalla repressione.

Dharamsala (AsiaNews) - Un monaco tibetano si è cosparso di kerosene e si è dato fuoco nella regione del Sichuan, in protesta contro l’oppressione cinese e gridando “Viva il Dalai Lama!”. Portato all’ospedale, rifiuta ogni cura e desidera essere lasciato morire.

Secondo fonti locali, raccolte da Radio Free Asia, il monaco si chiama Dawa Tsering, aveva 31 anni e ha compiuto il gesto davanti al monastero di Kardze (Ganzi, in cinese), nella prefettura tibetana del Sichuan, dopo aver gridato ai monaci presenti di rimanere uniti contro il governo di Pechino.
Altri monaci lì presenti hanno dichiarato di averlo sentito gridare “Viva il Dalai Lama!”.

I monaci sono riusciti a salvare il corpo dalle fiamme e hanno trasportato Dawa Tsering all’ospedale di Kardze, seguiti da un gruppo di poliziotti. All’ospedale sono arrivate in massa le forze di sicurezza che hanno isolato la zona.

Un monaco lì presente ha detto che Dawa Tsering rifiuta ogni cura, ha il volto e la pelle del corpo bruciata e coperta di bende. Egli chiede di essere lasciato morire.

Dawa Tsering è il 10mo monaco quest’anno che tenta di morire dandosi fuoco; il maggior numero nelle ultime settimane. Almeno cinque di loro hanno raggiunto il loro intento, morendo. La scorsa settimana si è data fuoco una monaca, Tenzin Wamgmo, di circa 20 anni. Era la prima volta che una donna si auto immola.

Pechino accusa il Dalai Lama di provocare queste morti e lo addita come fomentatore di disordini e di divisione nel Tibet. Il capo spirituale del buddismo tibetano è bollato come “un lupo travestito da agnello”, che vuole dividere il Paese. In realtà, da tempo, il Dalai Lama chiede solo un’autonomia relativa del Tibet e la salvaguardia culturale e religiosa del suo popolo.

Alcuni giorni fa a Dharamsala, nella città dove è esiliato, il Dalai Lama ha tenuto una giornata di preghiera e digiuno per coloro che si sono immolati. Diverse autorità tibetane tengono a precisare che il suicidio è contrario alla loro fede e che il gesto di questi giovani monaci è dovuto alla repressione cinese e a una non profonda conoscenza del buddismo

Pechino accusa il Dalai Lama: Incita al suicidio
Il governo comunista, ateo e contrario alla libertà religiosa, parla di violazioni alla “morale” e alla “coscienza” nei casi di auto-immolazione dei monaci buddisti in Tibet. Una fonte locale: “Il regime ha distrutto le basi della nostra religione, assolutamente pacifica, in Tibet. E questo è il risultato”.

Pechino (AsiaNews) – Il governo comunista cinese, ateo e contrario alla libertà religiosa, ha accusato “la cricca del Dalai Lama” di “andare contro la morale” nell’incitare i monaci tibetani ad immolarsi tramite il fuoco: “I casi di immolazioni sono contrari alla morale e alla coscienza, e dovrebbero essere condannati” ha affermato la portavoce del ministero degli esteri cinese Jiang Yu in una conferenza stampa.

Dall’inizio del mese, otto monaci e una monaca buddisti si sono suicidati o hanno tentato di farlo col fuoco. Quasi tutti i casi si sono verificati nella prefettura di Aba, zona cinese ad alta popolazione tibetana nella provincia del Sichuan, ai confini con il Tibet. Le critiche cinesi si sono scatenate dopo che a Dharamsala – sede indiana del governo tibetano in esilio – il leader del buddismo tibetano ha guidato una elaborata cerimonia e un digiuno di preghiera lungo un giorno “per commemorare, con spirito di solidarietà, i nostri fratelli morti”.

Alla cerimonia ha partecipato anche il primo ministro tibetano, Lobsang Sangay, che ha dichiarato: “Noi rendiamo omaggio al loro coraggio e siamo solidali con il loro spirito indomabile”. Le vittime sono Lobsang Phuntsok (20 anni), Tsewang Norbu (29), Khaying (18), Choephel (19) e la monaca Tenzin Wangmo (20): tutti loro sono morti per combustione. Le preghiere sono state indirizzate anche a Lobsang Kelsang (18), Lobsang Kunchok (19), Kelsang Wangchuk (17), and Norbu Damdul (19): di questi non si conosce la sorte. Il premier ha chiesto all’Onu di inviare un team che raccolga informazioni su questi monaci.

Tutti i religiosi appartengono al monastero di Kirti, nella zona della cittadina di Ngaba. Questo luogo di culto è stato fondato relativamente poco tempo fa da un abate che, in precedenza, lavorava come bibliotecario nel monastero del palazzo Potala, sede dei Dalai Lama in Tibet. Questo abate, spiega una fonte locale ad AsiaNews, “non è un grande studioso, ma un uomo molto politicizzato. Inoltre vive a Dharamsala, dove si trova in realtà la sede principale del monastero”.

Il suicidio rituale, in effetti, non appartiene alla tradizione o all’insegnamento buddista: “Soltanto i seguaci del sentiero del diamante – spiega ancora la fonte – potrebbero in qualche modo tollerarlo, ma si tratta di pochissime persone che non esistono quasi più, come congregazione. Qui siamo davanti a un fenomeno completamente diverso, in cui bravi giovani si trovano stretti fra un regime repressivo e una religione insegnata nel modo sbagliato”.

In effetti, conclude la fonte, “se si deve accusare qualcuno di incitare al suicidio, questo qualcuno è il governo cinese. Se non avessero distrutto la nostra cultura e la nostra fede, massacrando monaci e abati per sostituirli con burattini teleguidati, non si sarebbe mai verificato un fenomeno del genere. Il buddismo tibetano insegna la pace e la non violenza. Sono loro che l’hanno distrutto”. 

martedì 25 ottobre 2011

L'ultimo messaggio


Gheddafi scrisse a Berlusconi
L'ultimo messaggio il 5 agosto: «Ferma le bombe»
Le salme del rais e del figlio sepolte segretamente

MILANO - «Caro Silvio, ferma i bombardamenti». Lo scoop è del settimanale francese Paris Match: si tratterebbe, secondo il giornale, dell'ultimo messaggio inviato in Occidente da Muammar Gheddafi. E il destinatario sarebbe proprio il leader italiano Silvio Berlusconi. La lettera risale al 5 agosto, quando le sorti della guerra in Libia non erano ancora state decise dalla presa di Tripoli. Ma il governo lealista era in grande difficoltà. La lettera fu inviata al premier italiano «attraverso i tuoi connazionali che sono venuti qui per sostenere la nostra causa». Secondo il periodico francese i latori del messaggio sarebbero stati Alessandro Londero e sua moglie Yvonne di Vito, responsabili della Hostessweb, l'agenzia di ragazze che animarono le ultime visite del colonnello in Italia.

IL MESSAGGIO - Nonostante le pubbliche minacce all'Italia, privatamente il rais esprime sentimenti di amicizia per l'amico che solo qualche mese prima l'aveva accolto con tutti gli onori a Roma. Si dice sorpreso «per l'atteggiamento di un amico con cui avevo sottoscritto un trattato di amicizia reciproca tra i nostri popoli». Ma non rimprovera il Cavaliere: «Non ti biasimo per ciò di cui non sei responsabile, perché so bene che non eri favorevole ad un'azione nefasta che non onora né te né il popolo italiano». Quindi la speranza «di poter ancora far marcia indietro». E l'appello: «ferma il bombardamento che uccide i miei fratelli libici. Parla con i tuoi alleati per pervenire ad una soluzione che garantisca il mio popolo da questa aggressione». Infine la promessa: «Stai certo che sia io che il mio popolo siamo disposti a dimenticare e a voltare pagina».

LA SEPOLTURA - Intanto, la salma di Gheddafi e del figlio Mutassim sono state portate via dalla cella frigorifera del mercato di Misurata. Secondo fonti del Cnt, saranno seppellite all'alba di martedì in un luogo segreto. Con loro ci sarà un religioso per assicurare il rito funebre secondo i precetti islamici. La decisione è stata presa perché non è stato raggiunto alcun accordo con la tribù Qaddafiya del Colonnello sulla consegna del corpo.




corriere.it

Non c'è niente da ridere signor sarkò

(ANSA) - ROMA, 25 OTT - Il generale Leonardo Tricarico, ex
capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, ha restituito oggi alla Francia la Legion d’Onore, una delle più prestigiose onorificenze francesi, assegnatagli per il ruolo svolto durante la guerra in Kosovo: un gesto con cui l’alto ufficiale, che è stato anche consigliere militare di tre diversi presidenti del Consiglio (D’Alema, Amato e Berlusconi), intende protestare contro «l’irriguardoso comportamento» del presidente Sarkozy l’altro giorno a Bruxelles.

venerdì 21 ottobre 2011

Onore e armi in pugno. Come sanno morire i nostri nemici, nessuno



Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Come ha saputo morire il rais, armi in pugno, lo sapevano fare solo i nostri. Come a Bir el Gobi quando con onore, dignità e coraggio sorridevano alla morte. Fosse pure per fecondare l’Africa.

Sarà tutto tempo perso, dunque, sporcarne gli ultimi istanti, gravarne di dettagli i resoconti e anche quel disumano reportage sul volto fatto strame – tra sangue e calcinacci – non potrà spegnere il crepitare della mitraglia. Perché come ha saputo morire Muammar Gheddafi – così ridicolo, così pacchiano e così a noi ostile – come ha saputo farsi trovare, straziato come un Ettore, solo il più remoto degli eroi dimenticato nell’Ade l’ha saputo fare.
Come i nostri eroi. Come nel nostro Ade. Proprio come seppe morire Saddam Hussein che se ne restò sprezzante sul patibolo. Come neppure la più algida delle principesse di Francia davanti alla ghigliottina. Incravattato di dura corda al collo, l’uomo di Tikrit, degnò qualche ghigno al boia, si prese il tempo di deglutire il gelo della forca per poi gridare la sua preghiera: “Allah ‘u Akbar”. E fu dunque fatto morto. E, subito dopo, impudicamente fotografato.
Come nel peggiore degli Ade. Per quel morire che non conosciamo più perché gli stessi che fino a ieri stavano a fianco del rais, dunque Sarkozy, Cameron, lo stesso Berlusconi, tutto potranno avere dalla vita fuorché un ferro con cui fare fuoco. La nostra unica arma è, purtroppo, il doppio gioco. I nemici di oggi sono i nostri amici di ieri – amico fu Gheddafi, ancor più amico fu Saddam Hussein – e quando li portiamo alla sbarra, facendone degli imputati, dobbiamo scrivere la loro sentenza di morte con l’inchiostro della menzogna perché è impossibile reggere il ghigno dei nemici. Perché – si sa – i nemici che sanno come morire, poi la sanno sempre troppo lunga su tutto il resto del Grande gioco. Ed è un lusso impossibile quello di stare ad ascoltarli in un’udienza.

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. L’unica cruda verità della vita è la guerra e solo i nostri nemici sanno creparci dentro. E’ veramente padre e signore di tutte le cose, il conflitto, ma l’impostura è così forte in noi da essere riusciti a muovere guerra alla Libia dandola per procura, lavandocene le mani, mandando avanti gli altri perché a forza di non sapere morire con le armi in pugno, se c’è da sparare, preferiamo dare in appalto la sparatoria. Giusto come un espurgo pozzi neri da affidare a ditta specializzata.

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Quando gli eserciti dello zar ebbero ragione del loro più irriducibile nemico, Shamil il Santo – l’imam dei Ceceni, il custode della prima Repubblica islamica nella storia – nel vederselo venire avanti, finalmente sconfitto, non lo legarono a nessun ceppo, a nessuna catena, piuttosto gli fecero gli onori militari per accompagnarlo in un lungo viaggio fino al Palazzo reale dove lo zar, restituendo a Shamil il proprio pugnale, lo accolse quale eroe e lo destinò all’esilio, a Medina, affinché tutta quella guerra, spaventevole, diventasse preghiera e romitaggio.

Come c’erano una volta i nemici, non ce ne saranno più. Ed è per la vergogna di non sapere morire come loro che scacazziamo sui loro cadaveri. Ne facciamo feticcio e se fosse cosa sincera la memoria di ciò che fu, invece che produrre comunicati stampa di trionfo, se solo fossimo in grado di metterci sugli attenti, invece che mettere la morte in mostra, dovremmo concedere loro l’onore delle armi, offrire loro un sudario.

Sempre hanno saputo morire i nemici. E tutti quei corpi, fatti poltiglia dalla macelleria della rappresaglia, nel film della nostra epoca diventano tutti uguali: Benito Mussolini, Che Guevara, Gesù Cristo, Salvatore Giuliano. E con loro, anche i nemici morti ma fatti assenti, tutti uguali: da Osama bin Laden a Rudolph Hess. Fatti fantasmi per dare enfasi al feticcio, come quel Gheddafi armato e disperato che nel suo combattere e urlare, simile a un selvaggio benedetto dal coraggio e dalla rabbiosa generosità, mette a nudo la nostra menzogna.

A ogni pozza di sangue corrisponde l’onta della nostra vergogna e un Pupo che parla a Radio Uno e annunzia “una notizia meravigliosa” e si rallegra di Muammar Gheddafi, morto assassinato, è solo uno che si trova a passare e molla un calcio al morto. Pupo è come quello che sabato scorso, dalle parti di San Giovanni, vede la Madonnina sfasciata appoggiata a un muro e non sapendo che fare le dà un’altra pestata, non si sa mai. Così come il black bloc, anche Pupo, è una comparsa chiamata a raccolta nella montante marea del nostro essere solo canaglie. La signora Lorenza Lei, direttore generale della Rai, dovrebbe cacciarlo lontano dai microfoni della radio di stato uno così ma siccome il nostro vero brodo è la medietà maligna, figurarsi quanto può impressionare l’offesa al morto. Pupo, infatti, è l’eroe perfetto per il peggiore degli Inferi, l’Ade cui destinare quelli che non sanno darsi uno stile nel morire.

Di Pietrangelo Buttafuoco

domenica 16 ottobre 2011

Te la raccomando poi la massa


Non se ne può più di questo odio generale contro la casta dei politici. Un tempo lo condividevo anch’io, ma inveire contro di loro è facile e scontato. Così dopo il lancio delle scarpe Tod’s, mi sono nauseato. Che sono questi linciaggi di massa, senza distinguo? Te la raccomando poi la massa. È peggio della casta, la massa, vorrebbe godere degli stessi privilegi e compiere gli stessi abusi, ma non ne ha le possibilità e allora cova rabbia e invidia. Ma la crisi mondiale non è colpa dei politici, loro semmai non sanno fronteggiarla.

Quando sparano sul mucchio mi coglie il desiderio perverso di elogiare la casta. Anzi auspico la nascita di una vera casta, un corpo separato di élite, che gode di enormi privilegi pari alle loro responsabilità e capacità. Il guaio dei politici è che non sono una casta, una classe eletta, distinta e dirigente, ma un’accozzaglia, mediamente miserabile, simile alla massa.

Nell’attesa di una vera casta propongo una soluzione umanitaria: adottiamo un politico a distanza. Come si fa per i bambini delle favelas o se preferite un paragone disumano, con i bastardini smarriti e i gatti randagi. La preferenza è troppo poco, vogliamo l’adozione. Ci mandino le foto, il peso, l’età e noi ce lo scegliamo.

Non gli faremo mancare le nostre coccole, cibi e tenerezze, lo sproneremo nella sua carriera, lo seguiremo nel suo sviluppo.

Non soldi né mensa ma opere di bene. Aiutiamolo a crescere. Saremo i suoi tutori. Chissà che adottato non venga su un po’ più attento e riconoscente verso i suoi genitori adottivi.

Marcello Veneziani

venerdì 7 ottobre 2011

E' morto Steve Jobs. E' morto un grande uomo, non è morto alcun eroe.


di Francesco Torselli

E' morto Steve Jobs. L'uomo della "mela" e della "i" messa prima di un qualche prodotto informatico. Che Steve Jobs sia stato un grande uomo del nostro tempo è poco, ma sicuro. Anche che Steve Jobs sia stato un grande innovatore, un grande inventore, un "folle visionario" come forse si sarebbe definito lui è un dato di fatto. Ma azzardiamo di più. Steve Jobs è stato per il nostro tempo un qualcosa di molto simile, anche se imparagonabile a causa di quel mezzo millennio circa che sta in mezzo, a quello che Leonardo o Galileo sono stati per le loro epoche.

Steve Jobs è stato l'unico uomo "di mercato" a vivere una doppia dimensione: una terrena, materiale, anzi estremamente terrena e materiale ed una (quasi) spirituale. L'uomo della tecnologia dal volto umano. L'uomo della tecnologia non solo figlia di progetti ed investimenti di denaro, ma anche di una filosofia, la filosofia tutta americana del "self-made man" unita a quella, un po' più tradizionale del "volli, volli, fortissimamente volli".

Steve Jobs ha rappresentato l'icona dello studente modello, che sfrutta le doti di madre natura per emergere dal gruppo, intraprendere una strada in solitario e realizzare un prodotto in grado di competere con i più grandi colossi del mondo dell'informatica e dell'elettronica. Al tempo stesso Steve, ha rappresentato anche un altro tipo di icona, quella di colui che non si piega al richiamo del denaro contante che qualunque colosso avrebbe volentieri sborsato per averlo nelle proprie sale di progettazione, perchè talmente convinto dei propri mezzi che alla fine lo stesso (anzi, molto di più) denaro contante sarebbe arrivato grazie solo ed esclusivamente alle proprie intuizioni.

Steve Jobs è dunque un grande uomo. Un uomo che non ha mai perso la propria dimensione, neppure quando le azioni della sua azienda guadagnavano il 300% da un giorno all'altro. E mentre i suoi apparecchi si diffondevano a macchia d'olio da oriente ad occidente, portando cifre inimmaginabili nei suoi conti in banca, lui trovava comunque il tempo (e l'entusiasmo) per incontrare i neo-laureati e spiegare loro che l'obiettivo di un uomo non deve mai essere quello di diventare il più ricco del proprio cimitero, ma semmai quello di migliorare la vita a chi gli sta attorno.

Steve Jobs è un grande uomo perchè quando la sua azienda sembrava destinata ad essere annientata (come accaduto peraltro a molte altre aziende meno fortunate di quella di Jobs) dal colosso piglia-tutto Intel-Microsoft, egli realizzava spot televisivi riprendendo immagini dal Grande Fratello di Orwell che stava egemonizzando il mondo con la propria dottrina e facendo incarnare alla (ancora) piccola Apple il ruolo della voce fuori dal coro.

Oggi quindi è morto un grande uomo. Un uomo che merita tutto il rispetto possibile ed a cui vanno, doverosamente rivolte un pensiero ed una preghiera. Perchè anche con la sua morte, avvenuta a soli 56 anni, Steve Jobs ha voluto dimostrare di non aver perso la propria umanità di fronte al successo ed al denaro. Perchè di solito i ricchi ed i potenti si credono immortali, mentre lui, che ricco e potente lo era davvero, ha avuto il coraggio di mostrare in pubblico il progredire della sua malattia, rendendo tutti partecipi della sua sofferenza.

Ma oggi non è morto alcun eroe. Sul Web, su Facebook, su Twitter, si rincorrono celebrazioni e frasi che dipingono Steve Jobs come una sorta di ultimo profeta. Come eroe dei nostri tempi. Come una divinità. La "mela" che per un giorno si trasforma in una moderna croce e gli appassionati della tecnologia "made in Cupertino" (tra i quali si annovera chi scrive) diventano una specie di seguaci di una nuova religione.

Steve Jobs non è un eroe. Non ha sacrificato la sua vita ad una causa nobile, per il solo gusto di donarsi. Non ha sfidato la morte per difendere ciò in cui credeva. Non ha salvato popoli interi da devastazioni e massacri. Non ha mutato il corso della storia con le proprie azioni (sicuramente ha mutato quello della tecnologia, dell'informatica e dell'elettronica, ma cosa sono un iPod, un iPad e un iPhone di fronte alla grandezza della storia?). Non ha liberato dalla schiavitù alcuna popolazione, né ha salvato donne e bambini dalle spede di feroci massacratori. Non è morto per la libertà, né per difendere la parola di Dio. Non ha scongiurato guerre, né carestie.

Il mito del "self-made man" non ci appartiene. Lo scienziato che fonda una piccola azienda e riesce a trasformarla col tempo e con le proprie intuizioni in un colosso planetario, non è un'icona valida per un eroe. Non mescoliamo il sacro con il profano. Altrove, al di là dell'oceano forse questo può bastare per identificare un mito, un eroe, un condottiero. Ma non qui. Non da noi. Non nella terra che ha conosciuto le impronte di Alessandro Magno e di Cesare Augusto. Non nella terra della quale ha scritto Dante Alighieri e che ha raffigurato Michelangelo.

E' morto Steve Jobs, ricordiamolo come un novello Marconi, come l'uomo che ha sfidato sì il Grande Fratello dell'informatica, ma che poi ha finito col sostituirlo. Come l'uomo che ha reso più divertenti le nostre giornate e che ha infilato in tutte le nostre tasche almeno un oggettino elettronico che comincia con la "i".

Ma non facciamoci trascinare dalla sua morte verso la morte della nostra identità. La Apple non è una religione, lasciamo adorare la "mela" a chi un vera e propria storia non l'ha mai avuta. Ammiriamo l'uomo, lo scienziato, l'inventore ed ammiriamo quel lato umano che ha conservato fino al suo ultimo giorno di vita.Tributiamogli il giusto ricordo ed il doveroso rispetto, ma non paragoniamolo a chi, noi europei, siamo stati abituati a piangere.

Ma oggi è morto un grande uomo, non un eroe.

Da casaggi.org

giovedì 6 ottobre 2011

Trovati i documenti libici su Ustica


Secondo il resoconto dei media italiani, i documenti riservati trovati negli archivi del servizio segreto libico, dopo la caduta di Tripoli, che sono ora nelle mani di Human Rights Watch, dimostrano ciò che ha provocato l’abbattimento del Dc-9 Itavia sul Mediterraneo, presso l’isola di Ustica, il 27 giugno 1980.

Ottantuno persone a bordo del volo, sulla rotta da Bologna a Palermo, sono morte.

Come si è a lungo sospettato, i documenti confermano che un missile aveva colpito l’aereo, dopo che era stato scambiato per un aereo che trasportava il leader libico Muammar Gheddafi.

Secondo i documenti, due jet francesi all’inizio attaccarono l’aereo, e poi s’impegnarono in un duello con un solitario caccia MiG, che portava le insegne della Jamahiriya, e che si pensava scortasse il colonnello Gheddafi, fino a quando non impattò nella regione montuosa della Sila, nel sud d’Italia. Il colonnello Gheddafi, informato in tempo dell’attacco, riparò a Malta, dove atterrò col suo Tupolev, secondo i documenti.

Sembrerebbe, dalle carte dei servizi segreti trovate, che Gheddafi sia stato informato dai servizi segreti italiani (SISMI), che stava per essere attaccato, e aveva cercato rifugio a Malta.

Le autorità italiane hanno isolato l’area in cui il MiG cadde, e un giornalista e un fotografo, che cercavano di scoprirne la vicenda, al momento, furono arrestati e trattenuti per ore dalla polizia, fino a che non svelarono ciò che avevano documentato. Più tardi, le autorità libiche affermarono che il pilota del MiG era in volo di addestramento, quando avrebbe perso la rotta. Il suo cadavere, che era già stato sepolto, fu riesumato; l’autopsia venne effettuata e il cadavere fu poi rimpatriato in Libia. Pochi giorni dopo, il 7 luglio 1980, una bomba distrusse gli uffici della Libyan Arab Airlines, a Freedom Square, a La Valletta, e ci fu anche un tentativo di incendio doloso dell’Istituto libico di Cultura, a Palace Square, in quel periodo.Secondo un libro del giornalista e storico francese, Henri Weill, la bomba e l’incendio doloso furono opera dei servizi segreti francesi, lo SDECE, come anche un attacco a una nave libica, a Genova. Poi, meno di un mese dopo, il 2 agosto 1980, un’enorme bomba distrusse la maggior parte della stazione ferroviaria di Bologna, e 80 persone furono uccise. La responsabilità dell’attacco terroristico non è mai stata stabilita con certezza. Proprio questa settimana, un tribunale italiano ha ordinato al governo di pagare 100 milioni di euro di danni civili ai parenti delle 81 persone uccise nel disastro aereo del 1980, che tuttora rimane ancora uno dei misteri più duraturi dell’Italia, almeno fino a quando i documenti scoperti questa settimana, saranno studiati a fondo.

Il governo italiano ha dichiarato che avrebbe fatto ricorso contro la decisione del tribunale civile di Palermo, che ritiene i ministeri della difesa e dei trasporti responsabili di aver omesso di garantire la sicurezza del volo. Tra le altre teorie sulle cause dell’incidente, vi era quella di una bomba a bordo o che l’aereo fosse stato accidentalmente preso in mezzo a un duello aereo.

L’avvocato Daniele Osnato, che insieme a un manipolo di avvocati rappresentati i parenti delle 81 vittime, ha detto che la giustizia è stata finalmente fatta. Oltre a determinare che i ministeri competenti non erano riusciti a proteggere il volo, ha detto, il tribunale ha anche concluso che erano colpevoli di aver nascosto la verità e di aver distrutto le prove.

Un’altra teoria sul dogfight aereo, aveva avuto credito dal giudice Rosario Priore, il quale aveva inizialmente accusato dei generali di esserne i responsabili. Il giudice Priore aveva teorizzato che un missile, lanciato da un caccia statunitense o da un altro aereo della NATO, avesse accidentalmente colpito il jet di linea interna italiano, durante il tentativo di abbattere un aereo libico.

Funzionari francesi, statunitensi e della NATO, hanno a lungo negato qualsiasi attività militare nei cieli, quella notte. (ilupidieinstein)

Da italian.irib.ir

martedì 4 ottobre 2011

Quelli che dissero no


Irriducibili, rabbiosi, certamente più coraggiosi che furbi. O almeno non dotati di quello che la gente chiama buonsenso, di quel minimo di opportunismo che aiuta a capire che quando è finita è finita. Fascisti non sempre, almeno non necessariamente. Disposti a sanguinare, ad aver fame a rischiar di finir male invece sì, quasi in ogni circostanza. È questa la descrizione, sommaria, di quei soldati italiani che, durante la Seconda guerra mondiale, essendo prigionieri di inglesi e americani, si rifiutarono di collaborare con i vincitori. Una resistenza passiva, apertamente sancita e garantita dalla convenzione di Ginevra, che molti portarono avanti anche dopo l'otto settembre, quando divenne molto meno chiaro decidere da che parte stare, a quale brandello di Patria lontana aggrapparsi. E, nonostante il fatto che in tale situazione di dubbio disperante si trovarono quasi un milione e mezzo di soldati presi prigionieri durante le molte disfatte del Regio esercito (seicentomila quelli nelle mani di Gran Bretagna e Usa), la storiografia italiana sull'argomento è sempre stata un po' latitante. Figurarsi poi su quelli che fecero la scelta sbagliata e, rinchiusi in campi speciali, tornarono a casa per ultimi. Essi subirono la damnatio memoriae: un Paese che aveva fatto di tutto per essere considerato cobelligerante e che viveva di piano Marshall non aveva alcuna voglia di ricordare coloro che a quella scelta si erano opposti sino all'ultimo.
Ecco che allora la ricostruzione fatta da Arrigo Petacco in Quelli che dissero no. Otto settembre 1943 la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e americani (Mondadori, pagg. 170, euro 19, in uscita martedì prossimo) arriva a colmare un vuoto. Lo fa in maniera non accademica, il racconto di Petacco ha ovviamente piglio giornalistico, e senza pretese di esaustività: gli italiani vennero sparpagliati in territori lontanissimi e subirono trattamenti molto diversificati. Il quadro che ne esce evidenzia però delle caratteristiche comuni. Da un lato la sbrigatività degli alleati che classificarono tutti coloro che rifiutarono di cooperare come fascisti: toccò anche al socialista Gaetano Tumiati (poi giornalista di vaglia e vincitore di un Premio Campiello) rinchiuso nel campo di prigionia di Hereford in Texas. E questa sbrigatività si trasformava rapidamente in sospensione delle garanzie previste per i militari. A Hereford i renitenti alla collaborazione venivano affamati e picchiati a colpi di mazza da baseball, in India ci furono ufficiali falciati a colpi di mitra solo per aver intonato inni fascisti.
Dall'altro la scarsissima attenzione dei comandi italiani per le proprie truppe imprigionate o in generale per le condizioni dei propri concittadini (ammettendo di non voler considerare i militi della Rsi come militari). Al momento dell'armistizio dell'otto settembre Badoglio e lo stato maggiore non negoziarono alcuna clausola relativa ai prigionieri. Non bastasse, anche in seguito, secondo Petacco, si guardarono bene dall'emanare ordini e disposizioni chiare. Schiacciati tra questi due diversi ingranaggi restarono moltissimi prigionieri italiani. Dovettero scegliere da soli, con le poche, frammentarie e spesso false informazioni che avevano. I più decisero di diventare «Coman» collaboratori, spesso creando situazioni al limite del ridicolo. Nel campo kenyota di Nanyuki il colonnello Lo Bello che stava invitando tutti i soldati a giurare fedeltà al Re e a rinnegare Mussolini gridò con entusiasmo «Viva il Re» ma nella foga del momento lo fece a braccio teso, con stentoreo saluto romano. La minoranza scelse la condizione di «no-coman». Tra questi vi furono fascisti indiavolati e vendicativi che redigevano liste nere per farla pagare a chi aveva accettato l'ineluttabilità della sconfitta; persone come lo scrittore Giuseppe Berto o lo scultore Alberto Burri, che non volevano barattare la libertà con l'incoerenza; militari che credevano nel detto molto anglosassone «Right or wrong, my country».
Pagarono cara quella decisione, le atrocità peggiori le subirono a colpi di scudiscio - maneggiato da altri italiani - i prigionieri del campo kenyota di Burguret. Pagarono per la dimostrazione di carattere più che per l'ideologia. Perch´ in fondo tutto si può riassumere nel giudizio, sbagliato secondo gli storici ma personale e sentitissimo, di un sommergibilista che venne colto dall'otto settembre in pieno oceano Pacifico e decise poi di continuare a combattere con i giapponesi: «Combattevo da due anni a fianco dei tedeschi... Poi dopo 56 giorni per mare arrivo in Giappone e mi dicono: “È tutto cambiato, ora sono i tedeschi i nostri nemici e anche i giapponesi...”. No, no. Io non ho mai tradito nessuno! Sono loro che hanno tradito me!».

Di Matteo Sacchi
Da ilgiornale.it

lunedì 3 ottobre 2011

La storia ci darà ragione

L'india si arma


Il contesto planetario cambia. Cambiano gli equilibri, l'India, la Cina e la Russia (sfruttando le sfortune americane) si armano. Saranno il fronte di una nuova guerra?

NUOVA DELHI - L'India intende di usare gli elicotteri Mil MI-17 V5, russi, giunti alla base aerea dello Stato del Punjab. La consegna rispetta le condizioni prevista da un contratto siglato tra l’India e Rosoboronexport (l'agenzia statale russa di intermediazione per le esportazioni di materiale per la Difesa) nel 2008, del valore di 1,354 miliardi di dollari e relativo all'acquisto di 80 aeromobili. Il lotto è composto da elicotteri in versione aggiornata per il trasporto di truppe e veicoli militari e per missioni di ricerca e soccorso. L'India utilizza da tempo il Mi-17 in particolare sulle aree montagnose degli Stati del Ladakh, dell'Arunachal Pradesh e dell'Himachal Pradesh.

italian.irib.ir