domenica 17 luglio 2011

La furia cinese


PECHINO - Per la seconda volta nel giro di una settimana il governo di Pechino ha alzato la voce con gli Stati Uniti. Toni che la Casa Bianca probabilmente non ricordava dai tempi della Guerra Fredda. E argomenti che - per ora - hanno lasciato afoni i portavoce americani. Prima la questione dei mille miliardi di dollari in buoni del tesoro Usa nei forzieri del Celeste impero, in pericolo di default («Invitiamo caldamente a considerare gli interessi dei risparmiatori», era stata in sostanza l'ingiunzione impossibile da ignorare). Poi, storia di ieri, il comunicato durissimo con cui Hong Lei, portavoce del ministero degli Esteri della Repubblica Popolare, ha chiesto a Barack Obama di cancellare «immediatamente» l'invito rivolto al Dalai Lama, una mezz'ora di «incontro privato» nella Map Room (e non nella Studio Ovale, riservato ai capi di Stato) definita a fine giornata «un passo che ha danneggiato le relazioni sino-americane».

L'imbarazzo americano è stato celato a fatica. Intanto l'appuntamento - fatto inconsueto - è stato annunciato solo poche ore prima: «Quest'incontro sottolinea il deciso sostegno del presidente alla conservazione dell'originale identità religiosa, culturale e linguistica e alla protezione dei diritti umani nel Tibet». Quindi, di fronte alla reazione, è stato scelto il silenzio. Pechino, forse colta di sorpresa, è infatti andata su tutte le furie. Il portavoce ha ribadito, come d'abitudine, che la Cina «si oppone fermamente a qualsiasi incontro di esponenti dei governi stranieri con il Dalai Lama, in qualsiasi veste». Hong Lei ha quindi chiesto agli Usa di «annullare immediatamente la decisione del presidente Obama di ricevere il Dalai Lama» invitando Washington «a non fare nulla che possa interferire negli affari interni cinesi e danneggiare le relazioni tra Cina e Stati Uniti».

Barack Obama incurante degli avvertimenti (ma aveva altra scelta il capo della prima potenza mondiale?), ha visto il capo spirituale dei tibetani alle 11 e 30 (le 17 e 30 in Italia): uscendo, il Dalai Lama ha affermato che il presidente Usa ha espresso «sincera inquietudine per il rispetto dei diritti umani» in Tibet. Per ridurre al minimo l'eco dell'evento, la stampa è stata tenuta lontana: nel febbraio 2010, in occasione del primo incontro tra il presidente e l'uomo «più odiato» dal governo cinese, la pressione di Pechino era stata tale che Tenzin Gyatso aveva lasciato la Casa Bianca da un'uscita secondaria, passando accanto ai sacchi di immondizia delle cucine. Quella visita era stata voluta soprattutto per tacitare il Congresso, tradizionalmente vicino alla causa del leader in esilio in India dal 1959, tanto che Obama era stato duramente criticato per non averlo ricevuto - nel 2009 - in occasione di una delle sue frequenti visite a Washington.

Ora, è probabile che le minacce di possibili ritorsioni o comunque di una crisi nei rapporti tra Cina e Stati Uniti - a parte qualche probabile azione dimostrativa - non avranno seguito. Come è noto, Pechino è la più grande creditrice degli Stati Uniti, con oltre mille miliardi di titoli nei suoi caveau. Così, come non ha alcun interesse di vedere il dollaro svalutarsi, la Repubblica Popolare non può nemmeno permettersi un qualche tipo di «guerra fredda» con Washington, visti gli interessi (finanziari) in gioco. Barack Obama, per contro, è obbligato per ragioni di politica interna a ricevere il Dalai Lama (per quanto in ritardo: il leader spirituale tibetano era a Washington dal 6 luglio e proprio nella capitale Usa ha festeggiato il suo 76esimo compleanno). Ma se compiacere il Congresso - sollecitato ad approvare entro il 2 agosto un piano di rientro dal deficit e di contenimento del debito - può portare frutti, irritare la Cina oltre il necessario rischia di costare troppo.

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