Dharamsala (AsiaNews) - Un monaco tibetano si è cosparso di kerosene e si è dato fuoco nella regione del Sichuan, in protesta contro l’oppressione cinese e gridando “Viva il Dalai Lama!”. Portato all’ospedale, rifiuta ogni cura e desidera essere lasciato morire.
Secondo fonti locali, raccolte da Radio Free Asia, il monaco si chiama Dawa Tsering, aveva 31 anni e ha compiuto il gesto davanti al monastero di Kardze (Ganzi, in cinese), nella prefettura tibetana del Sichuan, dopo aver gridato ai monaci presenti di rimanere uniti contro il governo di Pechino.
Altri monaci lì presenti hanno dichiarato di averlo sentito gridare “Viva il Dalai Lama!”.
I monaci sono riusciti a salvare il corpo dalle fiamme e hanno trasportato Dawa Tsering all’ospedale di Kardze, seguiti da un gruppo di poliziotti. All’ospedale sono arrivate in massa le forze di sicurezza che hanno isolato la zona.
Un monaco lì presente ha detto che Dawa Tsering rifiuta ogni cura, ha il volto e la pelle del corpo bruciata e coperta di bende. Egli chiede di essere lasciato morire.
Dawa Tsering è il 10mo monaco quest’anno che tenta di morire dandosi fuoco; il maggior numero nelle ultime settimane. Almeno cinque di loro hanno raggiunto il loro intento, morendo. La scorsa settimana si è data fuoco una monaca, Tenzin Wamgmo, di circa 20 anni. Era la prima volta che una donna si auto immola.
Pechino accusa il Dalai Lama di provocare queste morti e lo addita come fomentatore di disordini e di divisione nel Tibet. Il capo spirituale del buddismo tibetano è bollato come “un lupo travestito da agnello”, che vuole dividere il Paese. In realtà, da tempo, il Dalai Lama chiede solo un’autonomia relativa del Tibet e la salvaguardia culturale e religiosa del suo popolo.
Alcuni giorni fa a Dharamsala, nella città dove è esiliato, il Dalai Lama ha tenuto una giornata di preghiera e digiuno per coloro che si sono immolati. Diverse autorità tibetane tengono a precisare che il suicidio è contrario alla loro fede e che il gesto di questi giovani monaci è dovuto alla repressione cinese e a una non profonda conoscenza del buddismo
Pechino accusa il Dalai Lama: Incita al suicidio
Il governo comunista, ateo e contrario alla libertà religiosa, parla di violazioni alla “morale” e alla “coscienza” nei casi di auto-immolazione dei monaci buddisti in Tibet. Una fonte locale: “Il regime ha distrutto le basi della nostra religione, assolutamente pacifica, in Tibet. E questo è il risultato”.
Pechino (AsiaNews) – Il governo comunista cinese, ateo e contrario alla libertà religiosa, ha accusato “la cricca del Dalai Lama” di “andare contro la morale” nell’incitare i monaci tibetani ad immolarsi tramite il fuoco: “I casi di immolazioni sono contrari alla morale e alla coscienza, e dovrebbero essere condannati” ha affermato la portavoce del ministero degli esteri cinese Jiang Yu in una conferenza stampa.
Dall’inizio del mese, otto monaci e una monaca buddisti si sono suicidati o hanno tentato di farlo col fuoco. Quasi tutti i casi si sono verificati nella prefettura di Aba, zona cinese ad alta popolazione tibetana nella provincia del Sichuan, ai confini con il Tibet. Le critiche cinesi si sono scatenate dopo che a Dharamsala – sede indiana del governo tibetano in esilio – il leader del buddismo tibetano ha guidato una elaborata cerimonia e un digiuno di preghiera lungo un giorno “per commemorare, con spirito di solidarietà, i nostri fratelli morti”.
Alla cerimonia ha partecipato anche il primo ministro tibetano, Lobsang Sangay, che ha dichiarato: “Noi rendiamo omaggio al loro coraggio e siamo solidali con il loro spirito indomabile”. Le vittime sono Lobsang Phuntsok (20 anni), Tsewang Norbu (29), Khaying (18), Choephel (19) e la monaca Tenzin Wangmo (20): tutti loro sono morti per combustione. Le preghiere sono state indirizzate anche a Lobsang Kelsang (18), Lobsang Kunchok (19), Kelsang Wangchuk (17), and Norbu Damdul (19): di questi non si conosce la sorte. Il premier ha chiesto all’Onu di inviare un team che raccolga informazioni su questi monaci.
Tutti i religiosi appartengono al monastero di Kirti, nella zona della cittadina di Ngaba. Questo luogo di culto è stato fondato relativamente poco tempo fa da un abate che, in precedenza, lavorava come bibliotecario nel monastero del palazzo Potala, sede dei Dalai Lama in Tibet. Questo abate, spiega una fonte locale ad AsiaNews, “non è un grande studioso, ma un uomo molto politicizzato. Inoltre vive a Dharamsala, dove si trova in realtà la sede principale del monastero”.
Il suicidio rituale, in effetti, non appartiene alla tradizione o all’insegnamento buddista: “Soltanto i seguaci del sentiero del diamante – spiega ancora la fonte – potrebbero in qualche modo tollerarlo, ma si tratta di pochissime persone che non esistono quasi più, come congregazione. Qui siamo davanti a un fenomeno completamente diverso, in cui bravi giovani si trovano stretti fra un regime repressivo e una religione insegnata nel modo sbagliato”.
In effetti, conclude la fonte, “se si deve accusare qualcuno di incitare al suicidio, questo qualcuno è il governo cinese. Se non avessero distrutto la nostra cultura e la nostra fede, massacrando monaci e abati per sostituirli con burattini teleguidati, non si sarebbe mai verificato un fenomeno del genere. Il buddismo tibetano insegna la pace e la non violenza. Sono loro che l’hanno distrutto”.
Nessun commento:
Posta un commento