Ecco che allora la ricostruzione fatta da Arrigo Petacco in Quelli che dissero no. Otto settembre 1943 la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e americani (Mondadori, pagg. 170, euro 19, in uscita martedì prossimo) arriva a colmare un vuoto. Lo fa in maniera non accademica, il racconto di Petacco ha ovviamente piglio giornalistico, e senza pretese di esaustività: gli italiani vennero sparpagliati in territori lontanissimi e subirono trattamenti molto diversificati. Il quadro che ne esce evidenzia però delle caratteristiche comuni. Da un lato la sbrigatività degli alleati che classificarono tutti coloro che rifiutarono di cooperare come fascisti: toccò anche al socialista Gaetano Tumiati (poi giornalista di vaglia e vincitore di un Premio Campiello) rinchiuso nel campo di prigionia di Hereford in Texas. E questa sbrigatività si trasformava rapidamente in sospensione delle garanzie previste per i militari. A Hereford i renitenti alla collaborazione venivano affamati e picchiati a colpi di mazza da baseball, in India ci furono ufficiali falciati a colpi di mitra solo per aver intonato inni fascisti.
Dall'altro la scarsissima attenzione dei comandi italiani per le proprie truppe imprigionate o in generale per le condizioni dei propri concittadini (ammettendo di non voler considerare i militi della Rsi come militari). Al momento dell'armistizio dell'otto settembre Badoglio e lo stato maggiore non negoziarono alcuna clausola relativa ai prigionieri. Non bastasse, anche in seguito, secondo Petacco, si guardarono bene dall'emanare ordini e disposizioni chiare. Schiacciati tra questi due diversi ingranaggi restarono moltissimi prigionieri italiani. Dovettero scegliere da soli, con le poche, frammentarie e spesso false informazioni che avevano. I più decisero di diventare «Coman» collaboratori, spesso creando situazioni al limite del ridicolo. Nel campo kenyota di Nanyuki il colonnello Lo Bello che stava invitando tutti i soldati a giurare fedeltà al Re e a rinnegare Mussolini gridò con entusiasmo «Viva il Re» ma nella foga del momento lo fece a braccio teso, con stentoreo saluto romano. La minoranza scelse la condizione di «no-coman». Tra questi vi furono fascisti indiavolati e vendicativi che redigevano liste nere per farla pagare a chi aveva accettato l'ineluttabilità della sconfitta; persone come lo scrittore Giuseppe Berto o lo scultore Alberto Burri, che non volevano barattare la libertà con l'incoerenza; militari che credevano nel detto molto anglosassone «Right or wrong, my country».
Pagarono cara quella decisione, le atrocità peggiori le subirono a colpi di scudiscio - maneggiato da altri italiani - i prigionieri del campo kenyota di Burguret. Pagarono per la dimostrazione di carattere più che per l'ideologia. Perch´ in fondo tutto si può riassumere nel giudizio, sbagliato secondo gli storici ma personale e sentitissimo, di un sommergibilista che venne colto dall'otto settembre in pieno oceano Pacifico e decise poi di continuare a combattere con i giapponesi: «Combattevo da due anni a fianco dei tedeschi... Poi dopo 56 giorni per mare arrivo in Giappone e mi dicono: “È tutto cambiato, ora sono i tedeschi i nostri nemici e anche i giapponesi...”. No, no. Io non ho mai tradito nessuno! Sono loro che hanno tradito me!».
Di Matteo Sacchi
Da ilgiornale.it
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