sabato 17 novembre 2012

Sull'Alta via “La felicità è una direzione, non un luogo”

Laboratorio D'Azione

Il nostro viaggio sulla Classica, l'Alta via numero 1 delle Dolomiti.

“La felicità è una direzione, non un luogo” recita un vecchio detto che sembra ricordarciche la meta conta spesso meno del viaggio stesso. In questa solo apparente oscillazione tra la passione per il percorso, e la volontà di raggiungere una meta ci muoviamo spesso quando viaggiamo, ma anche nella Via che è la vita, senza spesso riuscire a capire che la meta potrebbe non essere un punto di arrivo.
L’unica cosa certa spesso è il punto di partenza, nel nostro caso il Lago di Braies, qualche manciata di km da Dobbiaco, terra di Alto Adige, o di Sud Tirolo, dipende, come spesso capita, più dai  punti di vista che dalle appartenenze. Siamo arrivati qui dopo una decina  di ore di viaggio da Roma, 3 cambi di treno e un autobus, che hanno già messo alla prova la nostra capacità di spostamento con gli zaini. Ma la fatica attuale o potenziale non è il nostro primo pensiero quando raggiungiamo il Lago, con l’imponente, per questi luoghi, albergo che gli fa da cornice.
Qui negli ultimi mesi della seconda Guerra mondiale furono trasferiti diversi “ospiti” illustri, prigionieri, oggi si direbbe “Vip”, del campo di Dachau. Ai crimini perpetrati nei campi di concentramento e detenzione d’Europa e non solo, fa da contraltare questa prigione d’alta quota con i suoi boschi maestosi a fungere da barriere naturali che scoraggiano l’evasione.
Dietro già si stagliano le più belle montagne d’Europa, incombono sul lago e si specchiano vanitose, quasi a ricordare che la romantica bellezza del lago deve inchinarsi alle vere signore di queste terre, le Dolomiti.



E d’altronde anche noi abbiamo poco tempo di prendere confidenza con questo splendore ancora umido della pioggia appena caduta, di provare a percepirne gli odori, viverne la pace.
Da queste parti gli alberghi mantengono, anche per gli ospiti, abitudini montanare: si cena,e si va a dormire presto, tutti o quasi. Fa eccezione il pianista austriaco che quando torniamo in camera continua imperterrito, come fa ormai da ore, a bere improbabili misture di spumante e gin, saltellando sul piano, tra le risate e i sorrisi leggermente imbarazzati degli ospiti. Lui continuerà a suonare per buona parte della notte, con il pubblico che mano mano lo abbandona al suo destino alcolico; quasi tutti dovranno infatti alzarsi presto per mettersi in cammino.

Il Lago di Braies è il punto di partenza fissato su tutte le mappe e descrizioni per il percorso dell’Alta via delle Dolomiti numero 1, quello sul quale ci stiamo avviando con i miei due compagni di viaggio, Giak e Darioski. Le alte vie sono percorsi escursionistici percorribili in più giorni,  e suddivisibili in più tappe, durante i quali si pernotta in rifugi e bivacchi; percorsi lineari di qualche decina di km, e non escursioni giornaliere quindi da un punto ben preciso e ritorno.
Sulle Dolomiti sono stati tracciati diversi di questi sentieri, quella che ci accingiamo a percorrere è una delle più belle dal punto di vista paesaggistico, l’alta Via numero 1, definita la Classica.
È da mesi che con Giacomo avevamo studiato ed aspettato questo momento, quindi partiamo la mattina molto presto anche per cercare di evitare il caldo di una giornata che pare aver dimenticato le nubi del giorno prima e si preannuncia assolata già dalle prime luci.
Giriamo intorno al Lago, la direzione è quella delle montagne che la sera prima ci avevano da subito incantato, si comincia a salire sulle prime pietraie, e già rispetto alle altre esperienze di montagna che avevamo avuto,  sentiamo il peso di qualcosa di nuovo, qualcosa che ci tira a terra, e ci fa sudare come fossimo in spiaggia a mezzogiorno del Ferragosto, anche se sono solo le 8 del mattino e ci stiamo dirigendo verso i 2000 metri.
 In partenza da Roma non avevamo guardato molto al peso degli zaini, anche se avevamo fatto attenzione ovviamente a non caricarli troppo. Lo stretto indispensabile per una settimana, con i dovuti cambi. Scoprirò al ritorno che sono 15kg scarsi, ma in quei primi momenti sembravano duecento. Mentre la strada si fa sempre più ripida, e non si riesce a vedere ad occhio dove la salita terminerà,  ogni passo si pianta più pesante sul terreno: inizi così con l’inventario di tutto quello che hai messo dentro lo zaino, e maledici ogni cosa che in quel momento ti sembra superflua, dal libro già letto e sfogliato decine di volte, ai troppi paia di mutande, fino al  campioncino di profumo inserito all’ultimo tra gli oggetti per la pulizia personale, e che ovviamente non verrà mai utilizzato. Sono momenti interminabili, il primo sforzo.
Poi pian piano il passo si regolarizza, ci si abitua alla fatica, si sale regolari cercando di evitare soste inutili, e i primi mille metri di dislivello fatti tutti di un fiato volano via in poco più di tre ore. La Croda del Becco a farci ombra, ed uno strudel al Rifugio Biella per ristorarci, e ripartire quanto prima. Avevamo già deciso prima di partire che non avremmo sostato qui, ma che avremmo unito questa prima tappa prevista dall’Alta via, ad una parte della seconda. Così ci rimettiamo gli zaini in spalla, attraversiamo una splendida conca, ricca dei colori che avevamo immaginato. La strada è larga e piana, e così questi 10 km che ci separano dall’arrivo al nostro primo pernotto diventano decisamente più leggeri, anche se nella  lunga discesa verso il Rifugio Pederu bruciamo quasi tutto il dislivello salito fino a quel momento.
Nonostante doccia, cena, ed un paesaggio dolce di pastelli,  che all’imbrunire colora di rosa ogni cosa che ci sta intorno, ce ne andiamo a dormire abbastanza rotti. Non sono ancora le dieci, ma la tappa di domani è tra tutte la più dure, ed è necessario ricaricarsi. Il silenzio assoluto della valle è in questo un ottimo corroborante.
Camminiamo già da un po’ quando ci lasciamo alle spalle la coppia di francesi con cui abbiamo diviso la camerata. Corpulenti, incedono con un passo lento, ma costante, mentre noi abbiamo intenzione di bruciare le tappe per toglierci dalla mente questa tappa sulla carta così dura; tanto da perderci per un po’ darioski, che ritroviamo al passaggio del rifugio Fanes, dopo un paio d’ore di camminata. Siamo solo all’inizio, ma il tempo sembra essere dalla nostra parte , ed un sole deciso ci accompagna alla scoperta della splendida  Val di Fanes, un distillato corposo di tutto il campionario che le Dolomiti possono offrire: nel verde brillante della valle che ci fascia con i suoi dolci pendii, paciosi pascolano vacche e cavalli, che trovano ristoro nei ruscelli che attraversiamo.
La sosta in questo angolo di paradiso vale una giornata di cammino, anche se dura comunque troppo poco; ma è ora di rimettersi in marcia, il passo lascia il comodo verde e ricomincia ad assaggiare la roccia.
Giack tira su un improbabile cappello da montanaro primo novecento e parte con un passo deciso difficile da seguire , se non a distanza. Un percorso in costante salita ci tira su a toccare i massicci che scorgevamo poco prima in lontananza, mentre vediamo il mondo aprirsi intorno a noi, l’immenso spazio aperto che disegna i profili sfumati ma riconoscibili della Sella Ronda, l’Alpe di Siusi, e poco più distante la Marmolada, che solo a nominarla vieni percorso dai brividi.
I brividi che ti prendono anche quando raggiunta Cima Scotoni ti affacci e vedi la picchiata che ci farà scendere in breve 500mt di dislivello su di una pietraia con pendenze da pista nera. È un attimo, si prende il respiro e si comincia a scendere, in breve siamo al Lago Lagazuoi.
Il tempo sta velocemente cambiando, il caldo della Val di Fanes è già un ricordo, il vento lento , ma costante ha trascinato su di noi nuvole che non promettono nulla di buono. Ogni sosta diventa a questo punto superflua, è ora di iniziare la salita verso il Rifugio Lagazuoi, che si para maestoso in lontananza. In breve comincia a piovere, è necessario coprirsi come viene, e continuare a camminare, la salita costante che ci si para davanti.
Il dolore sulle spalle comincia a farsi sentire proprio mentre saliamo tra i resti dei baraccamenti della Prima guerra mondiale. Qui erano sistemate  diverse posizioni di artigliera; da qua infatti gli austriaci dominavano la valle circostante, da dove provenivano i rifornimenti per le posizioni più avanzate.
Mentre aggiriamo i baraccamenti, è  scesa la nebbia, e ormai Giacomo che ci precede non si vede più quando ci apprestiamo per salire l’ultima rampa: alla nostra sinistra le gallerie scavate dagli austriaci, come postazioni difensive, ma anche gli ingressi dei tunnel scavati nel tentativo di far saltare la mitica Cengia Martini, la postazione italiana abbarbicata sul versante Nord della montagna, per anni vera a propria spina nel fianco nella inespugnabile fortezza del Lagazuoi.
Quella che di inverno è una comoda pista di sci diventa per noi una piccola via crucis. Sono quasi nove ore che siamo in marcia, sul sentiero ci siamo solo noi,  e mentre vento e pioggia sferzano il cammino, lento come non mai, è necessario più volte piegarsi su se stessi per trovare le forze per arrivare fino in fondo.
Quando siamo finalmente sulla soglia del rifugio, nostra meta quotidiana e bivacco per la notte, aspetto Dario per un abbraccio liberatorio. Ho la sensazione che lui non apprezzi o non ne afferri il significato, ma ce l’abbiamo fatta!
Rifugio Lagazuoi, 2752 metri, poco sotto lo spuntone della Vetta,  la nostra Cima Coppi, fortezza inespugnabile nella Prima guerra mondiale, di cui porta ancora le cicatrici. Kilometri di gallerie, italiane e austriache, scavate nel tentativo di far saltare con l’esplosivo le posizioni nemiche, nella più spettacolare, e tragica per il territorio, guerra di mine che la storia ricordi.  
Tante ore di cammino alle spalle, tanta fatica e in alcuni momenti la sensazione di non farcela, di non arrivare in tempo, di doversi fermare.
Anche senza compiere imprese titaniche, ardite scalate, l’unica chiave, la reiterata lezione è sempre la stessa, e trascende qualsiasi filosofia, che pure giustamente prova a spiegarla; si raggiunge ogni vetta, dalla più facile alla più difficile, un passo alla volta, pensando cioè in ogni momento solo al passo che stiamo compiendo.
In quel momento siamo soli, anche se il ristoro dei compagni può esserci utile, è con noi stessi che parliamo, dialoghiamo, lottiamo quando il passo arranca; ed è in noi stessi che c’è la forza per fare il passo successivo.
Tutto il resto è turismo, anche se con questi scenari intorno, è un magnifico turismo.

La nebbia intorno al rifugio deve ancora diradarsi quando scende la notte, e con lei una serie di meritati cicchetti di corroborante bombardino.
La mattina quando ci svegliamo la nebbia è scomparsa, il maltempo fuggito. La  finestra della cuccetta che abbiamo condiviso anche questa notte con gli amici francesi, si apre su un salto di mille metri, il cielo abbaglia di un blu intenso che solo l’alta quota conosce.
Fatica e stanchezza sono un ricordo lontano, l’energia fluisce come adrenalina.



Fuori il freddo viene sfidato solo da qualche uccello avvezzo alle altezze, quando ci rimettiamo in marcia. La strada oggi è comunque decisamente più lieve, la veloce discesa ci porta al Passo Falzarego, e dopo poche ore di cammino ci troviamo già in vista delle Cinque Torri alla nostra sinistra, e il Rifugio Nuvolau, la nostra meta di oggi, sulla nostra destra.
Quando arriviamo il rifugio pare qualcosa di non molto diverso da un paninaro di montagna. C’è a malapena lo spazio per muoversi tra escursionisti della domenica e fagottari vari. Cortina, che iniziamo a vedere proprio dai 2500 mt del rifugio, è molto vicina, e qua si paga lo scotto del turismo estivo di massa.
Così posiamo gli zaini e decidiamo di andare a fare un giro a quella che fu la Fortezza naturale del Cinque Torri, sotto le cinque ( ora 4! ) torri  che sovrastano Cortina in fronte alle maestose Tofane.

Qui sono stati ricostruiti camminamenti e baraccamenti della Grande Guerra. Superato il kitch dei manichini con divise italiane dell’epoca, camminando tra le trincee si cerca di tornare a quello scontro epico di cui queste montagne furono spettatrici e protagoniste ad un tempo. Uno scontro tra uomini al limite delle condizioni di sopravvivenza, un concentrato di tragedie e gesti di eroismo di cui queste rocce portano la memoria. In particolare l’area delle Cinque torri fu occupata dagli italiani nei primi giorni di guerra, quando gli austriaci lasciando Cortina si attestarono sulle linee del Sass de Stria. Postazione utilissima da cui fu possibile difendere il corridoio di rifornimenti che arrivavano dal Passo Valparola. Ma anche magnifico punto di osservazione, soprattutto dalle alture del Nuvolau e dell’Averau, su tutto il fronte del Col di Lana Passo Stief: divenne quindi in breve centro di comunicazioni, posto d’osservazione, base di servizi di ogni tipo, nodo cruciale per le retrovie italiane. 
I duelli di artiglieria iniziarono già nel giugno del 1915. L’allestimento di opere difensive robuste e sicure fu necessario non solo per l’eventualità sempre possibile di un attacco, ma soprattutto perché la posizione avanzata e panoramica significava esposizione al tiro nemico, soprattutto dalle postazioni fortificate del Sass de Stria e del Lagazuoi. Da questa trincea quasi naturale gli italiani si concentrarono quindi sulla continua attività di osservazione e sull’impiego di artiglieria nelle azioni di disturbo e a sostegno dei combattimenti che si combattevano feroci fino al corpo al corpo nella vallata sottostante[1].
Con la mente e il cuore agli eroi che fecero l’Italia libera, integra e indipendente, torniamo sui nostri passi.

È ora di tornare al rifugio passate le 16.30  è possibile tornare sulla “torre” del Nuvolau per prendere posto nelle camerate del rifugio. Lo scenario è ben diverso da quello visto poche ore prime.  Nessun “fagottaro” in giro, solo qualche escursionista solitario che scende verso valle, mentre la temperatura scende, accompagnata da una leggera foschia. Intorno solo quelli che saranno i nostri compagni per questa notte, a riempire i 24 posti letto a disposizione nel Rifugio. Il Nuvolau (Ex Sachsendank) è il primo rifugio ad essere stato costruito sulle Dolomiti orientali, inaugurato nel 1883. Distrutto durante la Grande Guerra fu poi ricostruito.

Nel darci il benvenuto, Chiara ci illustra la “vita” al Nuvolau: si dorme solo con il sacco, scarponi sull’uscio, bagno all’ esterno, luci spente e silenzio alle 22 e soprattutto, niente acqua corrente. Abbastanza spartano da innamorarci subito, di questo vero rifugio, quello che ti aspetti di trovare a 2500mt sulle Dolomiti, non un albergo tirato sulle montagne! La sindrome da innamoramento prosegue quando Chiara ci presenta la nostra stanzetta, un letto singolo ed uno a castello, e lo spazio a malapena per posare uno zaino, ma una finestra che affaccia sullo spettacolo delle Tofane e Cortina , alla distanza che ci consente di guardarla con il dovuto distacco.
Il tempo di sistemarsi,  di una birretta per godersi lo spettacolo della quiete del vuoto e delle montagne che abbiamo intorno, che la signora Giovanna, finito di raccogliere i fiori per ornare i tavoli,  incalza con le ordinazioni per la cena. Si cena alle 18.30 , senza deroghe per i terroni come noi che a quell’ora al massimo sperano in un thè con i biscotti.

Il clima è quello caloroso della piccola osteria, quando si cominciano a servire i primi canederli, seguiti da polenta e salsicce ed il tempo sembra fermarsi; fuori è salita la nebbia, intorno fuori dalle finestre di vede poco, ma di fatto è ancora giorno! Mentre la nebbia ci impedisce di godere del tramonto su Cortina, all’interno il clima è già notturno. È il momento della partenza dei vari giri di grappe, a tirare fino alle 10 quando “suona” il silenzio.
Nella stretta stanza si riassettano i pensieri, la mattina sarà sveglia alle 6.30, così ad avvicinarci maggiormente, come spesso succede in montagna, ai ritmi della natura. Si va a dormire poco dopo il tramonto, ci si alza con il giorno che nasce.

Un altro giorno di cammino, che inizia con una colazione essenziale, ma abbondante per avere la forza necessaria a chiudere gli zaini per ripartire salutando il Nuvolau, che per atmosfera e calore vincerebbe il confronto con qualsiasi albergo con le stellette.
Quella che ci attende è più che altro una lunga tappa di trasferimento, con dislivello soprattutto in discesa. In breve siamo al Passo Giau, mito di tanti ciclisti, risaliamo alla Forcella  Ambrizzola per poi attraversare il Pianoro di Mondeval . Siamo entrati nel Cadore, Pascoli verdi che farebbero impallidire le dolci colline che si incontrano sulla strada tra Dublino e Galway. Scenari e paesaggi stanno lentamente cambiando mentre lasciamo le dolomiti altoatesine per immergerci in quelle bellunesi. 


Camminiamo ormai da qualche ora quando la durezza della roccia e delle vallate di prati sconfinati, lasciano spazio al fitto bosco; dopo ore e giorni di camminate sono io a prendere la “testa”su questo sentiero dove sembriamo esserci solo noi. Il passo è spedito in questa lenta discesa senza sosta, dove per diversi momenti tempo e spazio sembrano annullarsi, laddove le gambe sembrano andare da sole, sicure decise. Tornano alla mente alcune parole lette e tratte dai canti dei Wanderwogel, gli studenti tedeschi che sul finire dell’Ottocento tornarono a scoprire la forza ancestrale di boschi e montagne, a snobbare la monotonia borghese della città per riabbracciare la natura come essenza primaria e levatrice di spirito e comunità, quando “La disciplina della marcia, l’ascolto della forza del bosco, costituivano un tentativo istintivo di immergere la vita in una dimensione atemporale”[2]


Forse Darioski e Bruno non riescono a comprendere la mia emozione quando il bosco si apre sulla radura che ospita il Rifugio Città di Fiume, quota 1900 mt. Sul pennone che si para all’ingresso dell’area del piazzale sventola fiera ed alta la bandiera della città che fu protagonista con D’Annunzio ed i suoi legionari, di uno dei più emozionanti esperimenti rivoluzionari che la storia d’Italia ricordi. Una città sacrificata agli interessi dei vincitori della seconda guerra mondiale, e regalata ai nemici d’Italia, come buona parte dell’Istria e di tutta la Dalmazia. Non è un caso che su questo rifugio, gestito comunque dalla sezione del Club Alpino Italiano di Fiume, sia posta  all’ingresso la targa che ricorda tutti i rifugi che il Cai di Fiume costruì e gestì, fino all’abbandono causato dal passaggio delle terre che li ospitavano in mano ai nemici d’Italia.

Purtroppo abbiamo solo il tempo di scambiare qualche battuta con i gestori, una forte stretta di mano ed un in bocca al lupo. Come sapevamo già in fase di pianificazione, il città di Fiume è pieno, dobbiamo quindi rituffarci nel bosco, questa volta insieme ad un gruppetto di austriaci, con i quali ci “rincorriamo” dal risveglio al Nuvolau, e riprendere la marcia per scendere ancora più giù, in direzione del nostro “bivacco” per stanotte, un alberghetto, il Rifugio Passo Staulanza, che ci consente di sistemarci alla confortante ombra dell’imponente Monte Pelmo.

Abbandoniamo sul presto la comoda camerata dello Staulanza, lasciando nel letto un paio di svizzeri che ancora devono smaltire la sbornia del giorno prima. Noi invece abbiamo ancora sullo stomaco le salsicce e la polenta  quando ci incamminiamo sull’ultima salita impegnativa di questo viaggio. Protetti dall’enorme ombra del Monte Pelmo ricominciamo a salire per raggiungere un altro gigante delle Dolomiti, il Monte Civetta.  Per i tornanti che ci porteranno dalle  prime piste da sci del  comprensorio sciistico, si intensifica il numero degli escursionisti. Sono in molti a salire dalle valli del bellunese in direzione del Rifugio Coldai, per godersi il pranzo con una fantastica vista sulla Val di Zoldo, e con il corroborante spettacolo dell’omonimo laghetto d’alta quota.
Anche noi non resistiamo alla tentazione di fermarci a riposare intorno al laghetto, prima di ripartire.

In breve siamo in vista del Rifugio Tissi, 2250 metri. Nel sentiero che ci porterà a raggiungerlo, camminiamo in uno dei paesaggi più d’impatto attraversati in questo viaggio. Alla nostra sinistra corre il massiccio del Monte Civetta, un imponente susseguirsi di picchi, fino alla parete che conduce in cima; una parete con un dislivello di 1000 metri che conduce in una ascesa da mozzafiato anche solo con lo sguardo,  ai 3220 mt della vetta. Sullo strapiombo alla nostra destra, un salto di ca. 800 metri di dislivello spinge la vista fino al paese di Alleghe, con la sua diga e relativo lago artificiale.
È un viaggio sospeso tra la magia del paesaggio e la paura di prendere in pieno l’acquazzone che marcia compatto con le nuvole nere che ci vengono incontro, che ci conduce  al Rifugio Tissi. Ormai siamo abituati alla stanchezza che dopo diverse ore di cammino, ti assale in vista della meta, quando le spalle sembrano venirsene giù insieme allo zaino. È il momento di stringere i denti, e in un attimo il passo si fa più deciso, duro e costante.
Quando arriviamo intorno alle 17, il Tissi è già pieno.  Molti si fermeranno qui per la notte, altri finiranno la loro birra continuando a fissare  senza sosta la parete del Civetta, sogno proibito anche per molti alpinisti esperti, per poi ridiscendere a valle in direzione di Alleghe.
 Il Rifugio è sistemato  in una posizione che fa pensare che anche durante la costruzione lo sguardo fosse sempre rivolto alla montagna, in un misto tra proiezione ed ammirazione. 


Pochi metri nella direzione opposta, ed un baratro per stomaci forti e menti libere da vertigini si apre sulla valle di Alleghe. Tutto intorno mentre il cielo è carico di nuvole rosa che sembrano aver assorbito il colore unico della roccia dolomitica, mentre il tramonto rimane nascosto.

È la nostra ultima notte in rifugio, forse anche per questo non riusciamo ad apprezzare fino in fondo il servizio e la cena. Sono le 19 quando abbiamo già finito di mangiare, e questa sera i giri di grappe, tutte artigianali, gusti forti ed intensi,  hanno un sapore leggermente più amaro. Le foto in bianco e nero di Attilio Tissi, cui il rifugio intitolato, in cima al Civetta insieme alla moglie Mariolina, sembrano messe apposta per tirare via un po’ di malinconia.
Quando torniamo nella camerata, i nostri compagni per questa notte sono già andati da un pezzo. Si alzeranno intorno alle 3 , suonando per la nostra gioia una gustosa sinfonia con i loro attrezzi da scalata.

Poche ore dopo è il momento di iniziare l’ultima tappa, ripercorreremo la strada dell’ultima tappa, per poi deviare attraverso le piste da sci che scendono fino al paese di Zoldo. Abbiamo tutto il tempo per sostare nuovamente al laghetto  del Coldai per riordinare i pensieri.

Il tracciato dell’Alta via numero 1 proseguirebbe con altre  3 / 4 tappe fino a Belluno, ma come già stabilito, il tempo a nostra disposizione è terminato. Siamo comunque consapevoli di aver visto, vissuto e conquistato la parte più bella e suggestiva del percorso.

Scendiamo così fino al paese di Zoldo, dove sosteremo per la notte,  prima di ripartire per Longarone – Venezia –  Roma.

Scendendo le ultime rampe che ci riportavano in paese, un senso di soddisfazione si mescolava ad una intensa consapevolezza. Quella di aver vissuto una esperienza seppur breve, assolutamente intensa, una conquista del tracciato fatta momento per momento, passo dopo passo. “Toccare” con mano, sudore, fatica, stanchezza, roccia, terra, pioggia: la montagna. Una conquista che andava di pari passo con la crescita e la soddisfazione di se stessi. Qualcuno chiama questo tipo di viaggi “trekking” , un termine generico ed assolutamente non  esaustivo come molti termini anglofoni che popolano il nostro parlare quotidiano. Un viaggio vissuto con il coinvolgimento di corpo, cuore, mente e spirito, è sempre una avventura.
Spasso in montagna di tratta di una avventura dove la partenza cambia, così come l’arrivo, ma dove la meta che si conquista rimane sempre la stessa. La consapevolezza di se, che lava via tutte le scorie della vita “ a valle” . La meta raggiunta quando:

“la voce degli interessi non ha più potere in me.
Quando guardo nella mia anima,
Il lume all’interno del recipiente si presenta distinto dalla coscienza
E non temo la sciocchezza e la stupidità….”

Da Vita di Milarepa

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